GIANNI PIACENTINO

“Un pensiero molto astratto e una azione molto concreta”

“Nella vita di oggi si vedono più ruote che alberi”

Gianni Piacentino

“L’Arte Povera ha difeso la natura, mentre io ho sempre sentito la natura tecnica delle cose. Credo che il ‘paesaggio’ dei nostri tempi sia anche fatto di automobili, aerei, apparecchi tecnici quotidiani” (1). Dal ’65 Gianni Piacentino inizia a lavorare a una serie di strutture elementari che fanno riferimento all’idea di mobilio e che si inseriscono nella natura artificiale del paesaggio contemporaneo (2). L’opera di Piacentino comunque costituisce un caso unico nel panorama dell’arte italiana particolarmente se viene comparata agli artisti della sua generazione. Nel suo caso forse è possibile trovare maggiore convergenza con esperienze internazionali come quella di Artschwager che con quanto avveniva in Italia. Qualcuno ha chiamato “mobili platonici” i mobili-giocattoli di Artschwager, che non sono in realtà né gli uni né gli altri. Solo che gli oggetti di Artschwager rimandano effettivamente all’aspetto dei mobili, quelli di Piacentino ne estraggono l’idea, quindi la definizione di mobili platonici che nel caso di Artschwager designa principalmente l’aspetto di non-funzionalità, nel caso di Piacentino sembrerebbe quasi etimologicamente più calzante, perché definirebbe l’adesione all’essenza dell’idea. E’ vero che nel lavoro di un grande protagonista dell’Arte Povera come Jannis Kounellis sono basilari i rimandi al letto, alla porta, al tavolo, ma in questo caso dell’arredo domestico permane l’idea di misura, una misura che riguarda l’uomo e la sua vita. I “mobili” di Piacentino invece sono spersonalizzati, distaccati dalla dimensione antropologica della vita umana, immessi in una diversa dimensione e resi quasi assoluti. In una intervista del ’68 su “Marcatre” Tommaso Trini sottolinea la grande importanza del colore nell’opera di Piacentino, mentre l’artista dichiara di ricevere nuove opportunità creative direttamente dall’informazione tecnologica.  

“Il primo a scrivere del mio lavoro è stato Paolo Fossati per la mostra Arte abitabile da Sperone nel 1966. Pistoletto aveva un lavoro che coinvolgeva una scultura lignea del Cinquecento. Gilardi aveva una struttura fatta di tubi dalmine (Gilberto Zorio era il suo assistente). Sugli Oggetti in meno e anche sul Pozzo che prima non li aveva Pistoletto aveva appiccicato gli specchi”. Pistoletto infatti presentava tre Oggetti in meno: Lampada a mercurio del 1965, Semisfere decorative e Scultura lignea ambedue realizzati tra il ’65 e il ’66. Gilardi presentava anche un Tappeto natura. La mostra è particolarmente interessante perché i tre artisti rappresentano sicuramente tre posizioni differenziate, ma molto avanzate in quel momento a Torino. Nonostante le foto dell’allestimento ci mostrino un’atmosfera di tipo globale in cui le opere abitano lo stesso spazio e sembrano quasi compenetrarsi in una sorta di fusione (Celant in Identité Italienne considera la mostra il primo esempio di environment in Italia, nozione che tuttavia non interessa particolarmente Piacentino, come nota Trini), la struttura quasi architettonica di Gianni Piacentino si distingue nettamente dalle altre per rigore e definizione. Soprattutto emerge un assoluto nitore, un minimalismo, una concisione, una sintesi, aspetti molto diversi dai lavori degli altri due artisti e piuttosto inconsueti nell’arte italiana di quel periodo.

Nel 1967 Con temp l’azione è curata da Daniela Palazzoli in tre differenti gallerie di Torino: Christian Stein, Il Punto e Sperone. L’idea è quella di un’energia circolante da una sede all’altra tanto è vero che teatro della mostro sono non solo gli interni delle gallerie, ma anche le vie che le collegano all’esterno. Il gioco di parole del titolo mira a ribaltare la contemplazione in azione e mette in evidenza l’elemento tempo. Piacentino è presente insieme ad Alviani, Anselmo, Boetti, Fabro, Merz, Mondino, Nespolo, Pistoletto, Scheggi, Simonetti e Zorio. Punto di riferimento e fulcro della situazione appare a quella data la galleria di Sperone che l’anno successivo organizza una “trasferta” alla galleria De’ Foscherari di Bologna (poi itinerante al Centro Arte Viva Feltrinelli di Trieste). Si tratta della seconda mostra dell’Arte  Povera, curata da Germano Celant: oltre ai sei artisti della prima mostra (Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali, Prini) sono presenti Anselmo, Ceroli, Merz, Piacentino, Pistoletto e Zorio. E’ anche l’occasione in cui si unisce al gruppo Calzolari.

Il 1968 si era aperto in gennaio con il Manifesto di Alighiero Boetti all’interno del quale Gianni Piacentino è il quarto nome con accanto due simboli (in realtà giudicati tutti non decodificabili dagli esperti): ne condivide uno con Fabro, Gilardi, Pistoletto, Boetti, Kounellis, Merz; l’altro con Pistoletto, Boetti, Pascali, Merz e Schifano.

Nello stesso 1968 si colloca Il percorso allo Studio Arco d’Alibert di Mara Coccia. Per la prima volta vengono presentate a Roma (3) le opere degli artisti di Torino, vera e propria città guida in quel momento a livello italiano e internazionale. La mostra nasce attraverso Maria Pioppi, compagna di Michelangelo Pistoletto ed ex collaboratrice della galleria di Mara Coccia che le manifesta il desiderio di invitare i giovani torinesi. In un primo tempo si pensa di coinvolgere Germano Celant che pone però come condizione di intitolarla Arte Povera. Il titolo invece prescelto, Il percorso, è più aperto e confacente a una metodologia che vede coinvolti in prima persona Pistoletto e gli altri artisti anche attraverso una serie di riunioni (4). Il 22 marzo 1968 apre la mostra “il percorso” di: piacentino, pistoletto, nespolo, mondino, boetti, merz, zorio, anselmo, paolini (nell’ordine in cui appaiono nell’invito). Nasce un piccolo caso su Gilardi che si dichiara “in posizione di inattività” e al quale la gallerista contropropone di pubblicare un testo in catalogo (dove viene invitato a scrivere anche Henry Martin) anche se gli artisti dichiarano “la non necessità di teorici”. Ma il titolo indica anche una tipologia di proposta inedita: “La mostra non è più una mostra e la consuetudine di definire la ‘collettiva’ la proposta di più artisti va dimenticata”. Anche “inaugurazione” è “altra parola da eliminare in questo caso. Dal momento dell’entrata del materiale in galleria alla fine, tutto è ‘inaugurazione’.”. Mara Coccia vuole fare un catalogo (che poi non riuscirà a realizzare e la cosa creerà qualche problema con alcuni artisti) e chiama Mario Cresci a fotografare gli allestimenti: “Mi sembra la persona adatta. Segue il lavoro di tutti, lavora, non parla, li ama, li capisce. Ci porterà dodici fogli di provini stupendi. Siamo tutti d’accordo: vanno utilizzati così, senza nessuna modifica”. Piacentino presenta il Tavolo (1967) che viene citato anche nelle recensioni di Alberto Boatto su “Cartabianca” (per il quale gli artisti mettono in gioco “il proprio spazio mentale”) e di Tommaso Trini su “Domus” (che legge l’allestimento come “serpente cinese della collettività creativa”). Ma quel che qui più ci interessa è un appunto del giorno successivo all’apertura: “Il senso della percezione concreta, l’azione e il pensiero ‘inutili’. Opere inconsumabili. Un pensiero molto astratto e una azione molto concreta: in mezzo nessuna ideologia, nessuna poetica, nessuna dialettica: solo un ‘tutto psichico’.” scritto a mano da Piacentino stesso. Parole che sintetizzano molto bene la sua posizione a quella data, ma che allo stesso tempo distinguono nettamente il suo lavoro da quello degli altri artisti.

In settembre alla Stadtische Kunsthalle di Dusseldorf Prospect 68, a cura di Konrad Fischer e Hans Strelow, presenta sedici gallerie europee e americane e Gian Enzo Sperone espone opere di Calzolari, Boetti, Prini e  sei opere di Piacentino (Palo, Tavolo I e Tavolo II, Sbarre su cavalletti, Specchiera tutti del 1967 e Oggetto marmorizzato del ’68). Altri artisti italiani (Anselmo, Merz, Zorio) sono invitati da Ileana Sonnabend (che alla fine degli anni Cinquanta era arrivata a Roma per aprire una galleria con Plinio De Martiis e da allora aveva frequentato molto l’Italia).  

E sempre nello stesso anno in ottobre ha luogo Arte povera + Azioni povere ad Amalfi, organizzata da Marcello Rumma e curata da Germano Celant. Luciano Fabro presenta la prima Italia e Felce del 1968, ma anche i precedenti lavori (maggiormente in sintonia con le ricerche di Piacentino) Tutto trasparente e Mezzo specchiato e mezzo trasparente del ’65. Piacentino in questa occasione presenta Specchiera e Oggetto marmorizzato. Dall’amico Giulio Paolini, che qui è presente con Titolo, lo dividono l’interesse per il colore, che in Paolini è dato per assenza (come precocemente avevano notato Fagiolo e Quintavalle), ma anche la tipica nonchalance dell’allestimento paoliniano (“con i chiodini a vista” dice Piacentino), anche se la tensione verso un procedimento oggettivo che Paolini sviluppa in un’opera come Vedo potrebbe far pensare a qualche punto di contatto, a quella data, nonostante la marcata diversità. E’ nell’occasione di questa mostra che Piacentino individua la rottura vera: “Ci fu un dibattito in cui Dorfles disse: ‘Signori qui ci sono tre artisti che non c’entrano niente, Paolini, Fabro e Piacentino’. Infatti era un discorso che non faceva una grinza” (5).

La prima mostra con i veicoli viene presentata nel ‘69 alla galleria Toselli di Milano dove nel ’70 c’è un’interessante collettiva: Mochetti, Piacentino, Pistoletto. “La mostra dei veicoli era straordinaria, irripetibile” dice Franco Toselli “Era una scultura mai vista, lui era più unico che raro”.   

Più che al rapporto con la natura a cui in quel momento si rivolgono molti artisti dell’area dell’Arte povera, l’interesse di Gianni Piacentino è indirizzato agli elementi meccanici che caratterizzano la nostra vita. Macchine che vanno realizzate a regola d’arte. “Mi diverto a fare una verniciatura perfetta”. Luciano Pistoi parlava di “perfezionismo fino alla maniacalità” (6). Il progetto di Piacentino ha la sua base nelle possibilità della tecnica. Solo che per lui la tecnica non è mera prassi. Non dimentichiamo che l’artista ha studiato filosofia. Nel saggio su L’origine dell’opera d’arte Martin Heidegger nota che i greci avevano un unico termine per designare la tecnica e l’arte. La parola téchne infatti indica una particolare modalità del sapere non disgiunto dall’operare pratico. Questa sembra essere proprio l’accezione del termine tecnica più aderente al lavoro di Piacentino.

Quello che colpisce del lavoro di Piacentino non è tanto il precoce minimalismo, quanto la forza di sintesi per cui la forma minimale è densissima. E se di minimalismo si può parlare è sicuramente più vicino a quello di John Mc Cracken che a quello di Donald Judd (7). Quelli di Gianni Piacentino sono oggetti non utilizzabili, ma fatti esattamente come se lo fossero. In questa aporia sta il senso di un’opera che resiste all’interpretazione e si pone come oggetto muto (per utilizzare i termini di Douglas Crimp). “Piacentino dà luogo a un continuo sospetto, costruisce pali, tavoli, infissi, specchiere e altre strutture tipo ‘design’ che non sono tali” scrive Tommaso Trini “le sculture di Piacentino scardinano la divisione, con il sospetto della loro immagine e funzione ambigua rimandano dall’arte all’estetica industriale e viceversa” (8). Saul Ostrow scrive: “Con il senno di poi, tagliando attraverso questa linea di demarcazione, Piacentino esplicitamente pone domande su funzionalità, paternità artistica e oggettualità in modi che gli artisti non useranno prima degli anni ‘90” (9). Se pensiamo a un certo modo di rivivere il design da parte di artisti come Tobias Rehberger o Jorge Pardo, Piacentino oggi lo troviamo più attuale di altri suoi compagni di strada.

L’importanza attribuita al colore lo porta a costituire una sorta di Pantone personale. “Colori sempre inventati, mai primari” (10). Nel ’68 il restauro di una moto Indian aprirà una nuova dimensione del lavoro, come dal ’72 i nuovi lavori nascono dall’immagine filatelica dell’aereo dei fratelli Wright.

Il testo di Piero Gilardi nel catalogo restituisce l’atmosfera di Amalfi: “Boetti, accampato davanti all’ingresso accumulava una trentina di gadgets e campioni di materiale, tutti etichettati dalla sua galleria, dentro un quadrato di tessuto bianco steso al suolo; più avanti Piacentino svolgeva pazientemente il nastro crespato dell’imballaggio e delle sue strutture; Pistoletto e Colnaghi bardavano un antico sarcofago con stracci multicolori, acquistati in balle, confezionate commercialmente… Nel pomeriggio arrivarono altri artisti; Fabro venne a impiccare con cavo d’acciaio una sagoma geografica dell’Italia; Paolini appese semplicemente al muro di fondo un pannello di nomi tessuti in modo da essere decifrabili solo conoscendoli…Alle 19 iniziò lo spettacolo dei ‘guitti’ di Pistoletto: essi partirono per un giro nelle pittoresche viuzze del paese e arrivarono nella piazzetta prescelta con gran codazzo di bambini e pubblico indigeno; la recita dell’ ‘Uomo ammaestrato’ ebbe luogo sotto la luce dei riflettori della TV, con Henry Martin formidabile interprete dell’uomo da ammaestrare”. Pistoletto sembra quasi riassumere nella propria identità d’artista il punto di intersezione tra le due sezioni della mostra, tra oggetti e azioni. Incarna quasi quel + posto nel titolo tra Arte povera e Azioni povere. Gilardi, che in alcune occasioni comincia a rivestire un ruolo critico e teorico, attraverso la stesura di testi, descrive la febbrile e fabbrile  atmosfera di quei giorni. Possiamo immaginare, quasi toccare con mano, quanto fosse efficiente e perfetto l’imballaggio di Piacentino (11) e quell’aggettivo “pazientemente” ci dice quanto l’artista si dedicasse con precisione e attenzione a tutto quanto potesse riguardare la cura dell’opera, un’attenzione e una dedizione all’operare pratico che ha sempre caratterizzato Piacentino e che non va tuttavia confuso con un compiacimento artigianale. Nell’artigianato si lascia emergere la traccia della mano, l’eco della sensibilità, mentre qui i residui della dimensione autobiografica, individuale, emozionale vanno dimenticati. E’ piuttosto una sorta di identificazione nella metodologia del procedimento attraverso cui passa il processo di spersonalizzazione verso l’opera.

“Ho cominciato a mettere le mie iniziali, perché mi ha sempre dato fastidio il problema della firma. Era un problema che l’industria aveva già risolto”. Un’altra traccia autobiografica da eliminare. “Piacentino, working in series, replaced the artist’s signature with a set of trademarks-his initials or his name, often rendered with a cursive flourish, that loosely emulate the classic logos of MG, Ford and Fiat” (12). Tutto in Piacentino sembra voler approdare a una dimensione impersonale dove anche la firma (sintesi del nome e della grafia dell’individuo) tende al logotipo. “Marchiando i prodotti realizzati con il suo marchio di fabbrica, egli si riferisce al loro carattere industriale, malgrado il fatto che siano costruiti artigianalmente” (13). La firma evolve nel logo, l’emotiva traccia autobiografica scompare per asciare il campo a un sigillo più freddo, neutrale, che adotta il canone dell’impersonalità.

Due possibili chiavi di lettura per entrare nell’opera di Gianni Piacentino: una è costituita dalla sua splendida collezione di francobolli sul tema del volo, da Mercurio e Icaro in avanti, raccolta in contenitori disegnati da lui.

L’altra è la pratica del sidecar (14), un esercizio di acrobazia a due, più performativo che meccanico. Paradossalmente non c’è contraddizione tra la persona di Piacentino, ironico, sicuro, beffardo, eroe che pratica in prima persona la sua vita pericolosa, tra James Dean e Steve Mc Queen, e la sua opera dove il vissuto si ribalta in forme autonome ed essenziali, si cristallizza nell’assoluta necessità della forma.

NOTE

(1)  Giacinto Di Pietrantonio, “Gianni Piacentino (intervista), Flash Art, dicembre 1991.

(2)  Cfr. Carolyn Christov-Bakargiev (a cura di), “Arte Povera”, Phaidon, Londra 1999.

(3) A Roma nel ’67 c’era stata la mostra Fuoco Immagine Acqua Terra curata da Calvesi e Boatto all’Attico di Fabio Sargentini, una sorta di annunciazione dell’Arte Povera declinata secondo l’uso di materie primordiali come terra, acqua, fuoco da parte di artisti come Pascali e Kounellis.

(4) La galleria allora era sita in via Ferdinando di Savoia 2. Mara Coccia ha raccolto tutta la documentazione (tranne la lettera di Celant, conservata però ancora nel suo archivio) in “22 marzo 1968 Mario Cresci fotografa ‘il percorso’ di: Piacentino, Pistoletto, Nespolo, Mondino, Boetti, Merz, Zorio, Anselmo, Paolini allo Studio Arco d’Alibert di Roma”, Mara Coccia, Roma 2008.

(5) Giacinto Di Pietrantonio, op. cit.

(6) Conversazione tra Giacinto Di Pietrantonio, Luciano Pistoi, Rosa Sandretto in “Piacentino Mochetti Alviani” catalogo delle mostre (1990) alla galleria Rocca 6, Torino 1991. Il testo su Piacentino è di Angela Vettese.

(7) Barry Schwabsky, “Gianni Piacentino. Esso Gallery”, Artforum, settembre 2002.

(8) Tommaso Trini, “Piacentino: la percezione del sospetto”, catalogo della mostra allo Studio Annunciata, Milano 1968.

(9) Saul Ostrow, “L’imprevista complessità di Gianni Piacentino”, catalogo della mostra alla Esso Gallery, New York 2004.

(10) Giacinto Di Pietrantonio, op.cit.

(11) “La prima cosa che mi ha colpito a New York è il reparto imballaggio”.

(12) Marcia E. Vetrocq, “Fast and cool”, Art in America, giugno 2002.

(13) Saul Ostrow, op.cit.

(14) Appare in uno degli inviti della galleria Toselli.

Ove non diversamente indicato le citazioni provengono da conversazioni con chi scrive.

Laura Cherubini