MINIMALIA
Una linea italiana del XX° secolo
di Achille Bonito Oliva

"Nell'arte ogni tipo di espressione progredisce e si evolve. Una sola cosa rimane sempre uguale a sé stessa: l'avanguardia" (Louis Jouvet)

II XX° secolo ha visto l'arte italiana sempre in prima linea con movimenti che ne hanno caratterizzato ricerca e sperimentazione nel rispetto di una memoria storica che ha evitato soluzioni schematiche e riduttive. Dalle Avanguardie storiche alla Neoavanguardia, dal Futurismo all'Arte Povera, dalla Metafìsica alla Transavanguardia è possibile riscontrare una linea mediterranea e cosmopolita dell'arte italiana capace di rappresentare la modernità ma senza appiattirsi sui modelli nordeuropei ed americani. Indubbiamente l'arte contemporanea, operando in un contesto ad alto sviluppo tecnologico, ha adottato nel suo svolgimento un metodo di analisi e riduzione linguistica che meglio mettono in evidenza le volontà di comunicazione nella società di massa.
Se il Minimalismo nordamericano confina sempre con la pura riduzione geometrica, lo standard del grattacielo e della forma semplice, è possibile rintracciare un "Minimalia" italiano, capace di trattenere nel rigore delle proprie forme tratti di complessità non riducibili alla pura geometria. "Minimalia" dunque è una mostra che evidenzia una linea originale e nello stesso tempo universale dell'arte italiana, partendo dal Futurismo e arrivando ai giovani artisti d'oggi con opere di grande importanza museografica tratte da collezioni pubbliche e private.
"Minimalia" è una mostra sulla ricerca artistica contemporanea in Italia, in particolare su quella linea che si dipana dal dopoguerra ad oggi giungendo spesso in anticipo su molti fatti internazionali. Quale antesignano di tale linea qui si indica un grandissimo artista delle avanguardie storiche di cui credo sempre più sarà chiara la priorità nel processo che porta alla nascita dell'astrazione, che non significa astrattismo ma piuttosto capacità di cogliere l'immagine nella sua struttura concettuale. E' curioso notare, come in quasi tutti i casi l'origine dell'astrazione sia legata ad un sostrato di cultura esoterica: Picabia interessato all'alchimia, Mondrian vicino alla teosofia. In quasi tutti i casi inoltre "l'invenzione" dell'astrazione nasce a stretto contatto con la musica, la più immateriale delle arti basata su astratti e matematici rapporti: il precursore Ciurlionis, l'artista lituano che influenzò Kandinsdkij, era anche musicista. La moglie di Picabia, Gabrielle Buffet, era allieva del maestro Busoni, il musicista ritratto in una delle ultime magistrali opere di Boccioni, che per altro in uno scritto su Balla ne evidenzia la "purezza suprema, una specie di sensibilità scientifica che doveva condurlo fatalmente all'interpretazione presente."
Per Giacomo Balla il principio dell'astrazione è nell'analisi della luce. "Le compenetrazioni iridescenti" scompongono la luce nei suoi colori disposti secondo forme triangolari che corrispondono alla struttura del raggio luminoso. E' la riduzione dell'arte al suo elemento essenziale, la luce, e di questa le sue componenti di base.
Senza dubbio il valore della progettualità assume un peso determinante nella strategia linguistica dell'arte italiana dalla fine del Quattrocento alla fine del XX° secolo, in quanto portatrice di particolari articolazioni della materia ideata dall'artista. Egli predispone una forma iniziale che si sviluppa progressivamente attraverso momenti modulari che moltiplicano, senza ripetizione, quello di partenza. Già la prospettiva rinascimentale, forma simbolica di una visione antropocentrica del mondo ed esaltatrice della ragione, opera sulla rappresentazione dello spazio mediante l'uso della geometria euclidea. Questa geometria nel suo impiego presuppone il senso della misura e di una resa iconografica essenziale. Astratto o figurativo, come si evince nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, il motivo pittorico diventa oggetto di una rappresentazione filtrata da un occhio progressivamente analitico, che farà affermare a Leonardo da Vinci : "la pittura è cosa mentale". Tale mentalismo sostiene lo sviluppo dell'arte italiana anche attraverso l'accelerazione spaziale del Barocco e regge finanche il suo passaggio dall'Ottocento al Novecento, fino alle sue prime decadi occupate dal Futurismo alla Metafisica, producendo fenomeni di espansione ed assottigliamento formale. Pure l'opera scultorea di Medardo Rosso, precedente a questi movimenti di avanguardia è attraversata dal desiderio di smaterializzazione, il tentativo di portare la scultura verso uno stato di assotigliamento vicino alla pittura.
Anche la Metafisica di De Chirico fonda la propria iconografia su uno spaesamento dell'immagine sotto il controllo della misura prospettica. Anche qui un senso della misura tende a dare essenzialità e nitore epifanico all'immagine.
In qualche modo una progettualità tutta italiana regge la mentalità della nostra arte nel XX° secolo, una interpretazione della modularità intrisa da un esprit de geometrie, un vapore mentale diffuso che tocca i versanti della produzione iconica e di quella aniconica.
Il modulo diventa l'elemento strutturale che fonde la possibilità della forma giocata sempre sulla complessità che moltiplica potenzialmente all'infinito la sorpresa della geometria. Convenzionalmente la geometria sembra essere il campo della pura evidenza e dell'inerte dimostrazione, il luogo di una razionalità meccanica e puramente funzionale. In questo senso sembra privilegiare la premessa, in quanto la conclusione diventa lo sbocco inevitabile di un processo deduttivo e semplicemente logico. L'artista italiano ha invece fondato un diverso uso della geometria, come campo prolifico di una ragione irregolare che ama sviluppare asimmetricamente i propri principi, adottando la sorpresa e l'emozione. Ma questi due elementi non sono contraddittori col principio progettuale, semmai lo rafforzano mediante un impiego pragmatico e non preventivo della geometria descrittiva.
Non a caso l'artista passa continuamente dalla bidimensionalità del progetto all'esecuzione tridimensionale della forma, dal bianco al nero dell'idea all'articolazione policromatica. A dimostrazione che l'idea ingenera un processo creativo non puramente dimostrativo ma fecondante e fecondo. La forma finale, bidimensionale o tridimensionale, propone infatti una realtà visiva non astratta ma concreta, pulsante sotto lo sguardo analitico ed emozionante dello spettatore. Il principio di una ragione asimmetrica regge l'opera che formalizza l'irregolarità come principio creativo. In questo senso la forma non si esaurisce nell'idea, in quanto non esiste fredda specularità tra progetto ed esecuzione. L'opera porta con sé la possibilità di una asimmetria accettata ed assimilata nel progetto, poiché partecipa della mentalità dell'arte moderna e della concezione del mondo che ci circonda, fatto di imprevisto e di sorprese.
In tal modo il concetto di progettualità viene investito di un nuovo senso, non rimanda più ad un momento di superba precisione, ma semmai di verifica aperta, seppure pilotata da un metodo costruito mediante la pratica e l'esercizio esecutivo. Il metodo rimanda naturalmente ad un bisogno di parametro costante e progressivo, ancorato ad una coscienza storica del contesto dominato dal principio della tecnica. La tecnologia sviluppa processi produttivi, ancorati sulla standardizzazione, l'oggettività e la neutralità. Principi costitutivi di una diversa fertilità rispetto a quella costruita sulla tradizionale idea iper-soggettiva della differenza.
In questo l'artista italiano classicamente moderno, è portatore sano di un'arte capace di produrre differenze mediante la creazione di forme che utilizzano standardizzazione, oggettività e neutralità in maniera fertile, capace di filtrare nell'immaginario di una società di massa pervasa dal primato della tecnica e da questa svuotata di soggettività. Ma questo svuotamento non è visto come una perdita, come potrebbe sembrare ad una mentalità tardo-umanistica o marxista. Invece diventa il portato di una nuova antropologia dell'uomo che funziona secondo un metabolismo di ragione modulare che non significa però ripetizione simmetrica ma moltiplicazione asimmetrica, applicazione appunto delle nuove regole del caso intelligente contrapposto al caos indistinto. Caso intelligente significa capacità dell'uomo di accettare la discontinuità senza cadere nella dispersione di una razionalità incapace. L'accettazione nasce dalla perdita di superbia da parte del logocentrismo occidentale che ingloba la paziente analiticità del mondo orientale e si muove pragmaticamente non in assetto di guerra ma di disponibilità verso il mondo. II sogno dello stile abita l'opera di Balla attraversato naturalmente dal dinamismo futurista, che non significa però semplice astrazione bensì anche fascino dell'essenzialità formale e complessità di motivi sottesi. Perché i rigori della tecnica e dell'armonia comportano sempre un'essenzialità che confina con la stilizzazione, effetto questo della produzione tecnologica.
Balla crea macchine formali che contengono dentro di sé l'idea della costruzione e dell'incastro, una complessità sempre montabile e smontabile a vista d'occhio.
Anche il quadro e il disegno sono costruiti con una volumetria che riesce a coniugare insieme i principi del dinamismo virtuale e quello di una stasi iniziale. Le forme sono disegnate e dipinte con spessori e gusto cromatico forte ed accentuato capaci di restituire il senso dell'artificio della scena urbana. Una vitalità segna le figure e gli oggetti, fecondati dall'uso di linee curve, la cui consistenza volumetrica sembra apparentemente contraddire il principio futurista della velocità che scompone i corpi e li rende astratti. Nello stesso tempo l'immagine ha sempre una valenza onirica, frutto di montaggio di situazioni inedite ed accostamenti fuori dall'usuale. Il Futurismo è riconducibile all'apparizione di una turbolenza che scuote lo spazio in maniera da accostare per accelerazione gli oggetti tra loro, ma senza farli deragliare fuori dalla legge di gravità. Le figure sono appena segnate e non rifinite, date a grandi colpi come per creare uno spettacolo atto ad uno sguardo incantato e infantile. Un senso del gioco attraversa l'opera, al limite di una ornamentazione capace di suscitare allegria e leggerezza. "Balla ha una mentalità tra l'infantile e il caotico" afferma Boccioni. L'arte come spettacolo della misura è la concezione sottesa alla produzione di questo artista che ha sviluppato un universo di immagini paradossi per un paese come l'Italia ancorato a una civiltà preindustriale. L'idea che abita le composizioni di Balla nasce senza dubbio dal ritmo della città moderna, fatta di avvenimenti che si accavallano incessantemente ed in maniera eclatante. L'ornato è la conseguenza di questa teatralizzazione che mette in evidenza motivi di decorazione quali segni di dinamismo. E' il sentimento di fondo dell'opera, affermativo di un'arte che mette in scena la vita per movimenti e mutamenti, in un'ottica di progressiva conoscenza. Nello stesso tempo la stilizzazione di questi meccanismi visivi è il portato della consapevolezza di una prossima civiltà industriale che attraverso lo stile produce serialità e possibilità della ripetizione.
Ma le immagini di Balla sono paradossalmente irripetibili, in quanto bilanciate da un sentimento dell'ironia che travolge le figure. L'allegria abita tutte le composizioni e le dispone sotto un segno di celebrazione della vita più che della macchina, del gioco più che della produzione. In definitiva per Balla la città è lo spazio degli incontri casuali il luogo della dinamizzazione dell'esistenza imprevedibile che il dinamismo della macchina tende ancor più a rendere tale. L'arte è lo strumento di formalizzazione di tale visione del mondo, la capacità di fissare il campo visivo. Il movimento futurista, in uno sguardo retrospettivo, è stato più equilibrato di quanto non sembri a prima vista o leggendo le cronache dell'epoca. Infatti le opere e i manifesti teorici ci consegnano l'identità di un gruppo artistico che coniuga apologia internazionalista della macchina con recupero della radice mediterranea. In ogni caso quello che marca anche la prima generazione futurista è l'adesione al principio dell'arte come ricerca capace di assumere "l'oggettività" dell'esperienza scientifica. Balla opera con un impeto interdisciplinare che lo porta verso soluzioni linguistiche che corrispondono sempre ad una visione filosofica dell'esperienza creativa e della vita in sé. Una sorta di sguardo fenomenologico regge la mano dell'artista che non compie alcun processo di proiezione o di identificazione affettiva verso i materiali recuperati per la composizione dell'opera: essa è il frutto di un'operazione di stanziamento direttamente proporzionale a quella di estraniamento che accompagna l'assunzione di elementi extra-artistici. Si può dire che non esista complicità tra Balla e la materia, nel processo di sublimazione di pulsioni oscure. Uno strumento di distanziamento adoperato è la sottile ironia, intesa proprio come passione filosofica che si libera nel distacco, che attraversa l'opera e si pone come sguardo che affronta il mondo mediante un'ottica a campo totale.
Nel caso di Balla il campo è dato da una sorta di distanziamento o vista dall'alto della composizione che ci restituisce la mappa totale dell'immagine e nello stesso tempo ci impedisce una interrogazione ravvicinata. L'arte diventa una sorta di conoscenza delle grandi distanze, intese come impossibilità di sfondare il mistero delle cose e come possibilità di trovare l'ottica, il cannocchiale giusto, per inquadrare l'essenza della superfìcie delle cose stesse. Una sorta di ottica aerea assiste l'opera di Balla che tende così ad evidenziare il processo di approccio alla conoscenza, a sfidare la strutturale impersonalità della ricerca scientifica mediante la fondazione di un oggetto linguistico autonomo rispetto al suo autore, capace di darsi nella sana estraneità che accompagna il rapporto di analisi dello scienziato con il suo campo investigativo. Una luce mentale illumina letteralmente l'opera di Balla, disegno o pittura.
Tale luce non esprime fremiti mistici o metafisici, semmai tende a sottolineare i caratteri strutturali del fenomeno della conoscenza che sono, nel campo dell'arte, l'indeterminazione e la bellezza, conseguente all'impossibilità di una semplice conoscenza statistica.
Nell'opera di Balla circola sempre un'aura, una oggettività estraniante che forma una sorta di intercapedine tra sguardo dello spettatore e manufatto artistico. Il materiale extra-artistico, ripreso cioè dalla dimensione vita, interagisce con la materia della pittura, perimetro depurante della dimensione arte, attraverso un corto circuito che assorbe in un'unica dimensione la diversità.
Questa dimensione è quella del galleggiamento, una sospensione frontale schiacciata dall'alto dell'immagine che presenta in tal modo le sue componenti dichiarate nella loro sovrapposizione di piani. Gli organismi formali di Balla infatti si danno sempre come geografie cosmiche, carte geografiche per lo sguardo che indietreggiando può assumere una visione totale, e per questo filosofica delle cose. Le cose ovviamente sono la cosa, la materia costitutiva di tutte le materie, che sprona l'artista ad applicarsi con gli strumenti che gli sono propri e che non gli impediscono una sfida conoscitiva capace di sottrarsi al pathos della soggettività e della declinazione sentimentale.
Infatti nell'opera non c'è mai caduta lirica, intesa come afflato puramente emotivo, semmai una tensione verso un respiro cosmico in cui sono i livelli geologici dell'immagine a produrre profondità e larghezza. La profondità è l'effetto di una concezione filosofica che trova le proprie radici nel pensiero teosofico che permea tutta la produzione teorica ed in parte artistica del futurismo di Balla.
Centrale nel suo lavoro è la convergenza di tutti gli strati della cultura ed anche di tutti i linguaggi possibili, in un movimento verso la totalità espressiva che coniuga insieme arcaismo e modernità, materia e tecnica, in una tensione che talvolta sfiora accenti wagneriani come nel caso di "Feu d'artifice" di Strawinskij. Arcaica la stratificazione delle forme, moderna la concezione della consonanza tra la ricerca artistica e quella scientifica. La visione di superfìcie, che regge l'opera di Balla dalle "Compenetrazioni iridescenti" del 1912 in avanti, è l'effetto di una concezione sperimentale dell'arte, della conquista di un'idea spaziale che non affonda nell'illusione del trompe l'oeil ma piuttosto si espande appunto sulla superficie e magari conquista una terza ed una quarta dimensione corrispondente alle concezioni più avanzate della scienza moderna.
Succede allora che i dati antropomorfici non si espandano in un liquido spaziale secondo una sconnessione ritmica che anticipa paradossalmente i movimenti charlottiani, in cui abiti e forme ambientali sembrano inseguire afasie e squilibri spaziali che tutto sommato creano un equilibrio instabile, una sorta di classicità formale di uno squilibrio ed una instabilità legati alla condizione dell'uomo moderno. Tutto si tiene nell'opera di Balla in quanto esiste, sotto i livelli della forma, una concezione unificante capace di tenere insieme una costellazione di elementi, un intreccio di segni e materie che galleggiano nella naturale instabilità dinamica dello spazio e del tempo, all'incrocio di queste due dimensioni che sono le coordinate di ogni movimento. Stasi e movimento, disegno e spessore si alternano in ogni composizione, tutta calata in uno spazio circolare, come la volta celeste, in cui i corpi sembrano essere soggetti ad un moto perpetuo ed inarrestabile, lento fino al punto di permettere la percezione di ogni dato particolare.
Vicino e lontano, intero e dettaglio si intrecciano nell'ottica del quadro che si presenta come un universo oggettivamente presente sotto lo sguardo-cannocchiale dello spettatore.
I caratteri di oggettività e di presenza concreta sono riaffermati mediante l'assunzione di un ulteriore carattere appartenente non alle arti figurative ma al teatro, all'evento. La cornice dipinta diventa una sorta di palcoscenico che delimita l'accadimento, l'immagine si avvera nella sua oggettiva estraneità di materia e di forma alla contemplazione del pubblico.
Questo si trova in tal modo di fronte a una forma carica di dinamismo e di rallentato plasticismo nello stesso tempo. Balla mette lo spettatore in condizione di guardare da un osservatorio privilegiato, quello della forma, da cui è possibile risalire a un'idea totale oggettivamente filosofica delle cose. Tale dimensione presuppone insieme il peso concreto della materia e l'astrazione mentale, l'essenza del numero e l'evoluzione biologica della materia, la crescita e l'arresto, il volume e il puro colore. Quello che da titolo ad una sua composizione : "I numeri innamorati".
Comunque tutto si muove in circolo secondo linee di scorrimento che avvolgono la composizione e la rendono campo di un sistema di relazioni mobili secondo le regole di un eterno motore che sembra perdere gli ardori macchinistici tipici della predica futurista ed acquistare invece la cadenza pacata di una visione filosofica che travalica anche la modernità. Arriviamo così all'astrazione di forme non rinvianti più all'iconografia cinetica del futurismo ma ad una sorta di universo neoplatonico, dove le forme pure nella loro concreta astrattezza si fronteggiano nella perfezione di un'immobilità comprendente ogni possibile movimento, essenza dell'arte che trasfigura ogni dettaglio in dato universale.
Dopo Balla, negli anni Trenta e Quaranta nell'arte italiana non abbiamo quasi mai forme geometriche ma figure che costituiscono il figurabile della nostra epoca abitata dalla tecnologia che sembra comportare smaterializzazione ed astrazione dei corpi, come si evince per esempio dall'opera di Fausto Melotti. Eppure l'arte rende evidenti le forme, da corpo anche alla geometria. Infatti le forme, bidimensionali o tridimensionali, sono sempre concrete realtà linguistiche, affermazioni di un ordine mentale mai repressivo e chiuso ma fertile ed imprevedibile. In ogni caso le forme germinano e si moltipllcano con improvvise angolazioni che dispiegano le potenzialità di un nuovo erotismo di geometria mediterranea, legata alla linea curva. Queste sono forme di una monumentalità domestica, che non allude alla prepotenza della città moderna o alla retorica della scultura. Non si vuol produrre una convenzionale guerra alle forme esistenti nella realtà, semmai realizzare un campo linguistico di analisi e di sintesi. L'analisi è prodotta dalle possibilità di verifica sulla germinazione di queste famiglie di forme e la sintesi dalla forza delicata dell'insieme che si dispiega sotto i nostri occhi, alcune volte anche Iudicamente, come avviene con l'opera di Bruno Munari.
Alla fine degli anni Quaranta e all'inizio degli anni Cinquanta gli artisti in Italia fronteggiano i risultati di tre linee artistiche diverse ma parallele, rappresentate da Burri, Fontana e Capogrossi che hanno assunto, quale loro punto di partenza, il concetto di arte (materia, gesto e segno) come atto di convergenza totale tra l'opera e la vita.
L'opera d'arte è il luogo in cui l'artista si accampa, fuggendo, la natura precaria della vita. Se per Burri il problema è di sintetizzare lo spazio dentro un quadro, il fulcro oscuro dell'esistenza, il flusso traumatico del tempo, forza originaria della materia (iuta, ferro, legno, plastica), se Capogrossi traccia sulla superficie del quadro un segno arcaico e costante, cifra lampante di un linguaggio capace di rappresentare nell'istante dell'immagine una temporalità stratificata: simbolo e decorazione, sostanza e forma, il problema di Fontana è invece di affrontare le dimensioni dello spazio e del tempo e di ridurle a segno unico. Sulla tela rimane la cicatrice, la traccia simbolica dell'intervento dell'artista che riflette l'esperienza immediata dello spazio reale.
Tuttavia, tutti e tre considerano l'opera d'arte come estensione della propria esistenza che si afferma nel movimento verticale della creazione. In questo modo, un cordone ombelicale lega sia l'opera all'artista sia lo spazio appiattito e orizzontale del mondo quotidiano. Ne deriva, in una visione assoluta dell'arte, la speranza di allontanarsi dalla banalità tragica della vita per via di un atto, la creazione artistica, che glorifica la soggettività.
Il linguaggio adoperato da Fontana è il frutto di una mentalità che tende a confrontare il gesto produttivo dell'artista con la modularità della produzione industriale. Da qui la sua essenzialità e la riduzione del processo creativo alla limpidezza di un gesto controllabile e ripetibile. Slancio vitale e precisione chirurgica sostengono la strategia creativa di Fontana che imprime forma alla materia o la smaterializza precocemente nella dimensione installativa. Lucio Fontana nasce in Argentina da padre italiano e poi si educa in Italia con le scuole che frequenta a Milano. Egli è figlio di una doppia cultura: storico-europea italiana e una geografìco-antropologica quella sudamericana. Questa doppia radice gli da la possibilità di sviluppare una sensibilità molto complessa. Della radice italiana egli riprende la memoria culturale, principalmente legata al Barocco e al suo inevitabile sbocco futurista: esplosione delle forme nello spazio, momento di passaggio dell'arte ad una sensibilità moderna e possibilità di portare la pittura e la scultura fuori dalla cornice, nello spazio della realtà, seguendo una pulsione intrisa di progettualità.
In Fontana si crea un corto circuito tra le due culture da cui proviene. Da una parte, il bisogno della coerenza tutta europea di sviluppare una linea che dal Barocco al Futurismo arriva fino all'epoca in cui egli lavora, e dall'altra la ripresa di un atteggiamento tipico degli artisti provenienti da paesi coloniali, ovvero, l'eclettismo. L'eclettismo è l'attitudine alla mescolanza, all'intreccio, alla contaminazione che spesso nasce dalla mancanza di una radice propria. E' quindi l'impossibilità di riconoscersi, di identificarsi con una linea culturale puramente evolutiva, legata ad una linearità di sviluppo. Invece il colonialismo agisce per sovrapposizioni tra diverse memorie culturali.
Fontana da giovane comincia a relazionarsi anche con le arti minori attraverso la ceramica, realizzando sculture legate proprio all'esplosione delle forme nello spazio tipiche del Barocco. La conseguenza è un'apertura verso l'astrattismo ed il superamento di ogni staticità figurativa. L'astrattismo di Fontana è legato alla geometria, al bisogno dinamico di un ordine e di una costruzione, in quanto egli vuole ordinare la sensibilità tropicale della "Pampas" dentro un linguaggio che abbia il senso della costruzione dell'arte europea.
La costruzione del linguaggio di Fontana è legata a tutta la cultura contemporanea: costruire significa elaborare forme in sintonia con la società e la civiltà del proprio tempo. Un modello prodotto dalle avanguardie storiche, da cui riprende il concetto fondamentale, l'idea sperimentale di un'arte legata all'evoluzione del mezzo e della forma.
Per questo egli trova nel Futurismo il massimo dell'ispirazione. Esattamente nel "Manifesto della Scultura" firmato da Boccioni, in cui l'artista futurista dichiara di voler esprimere i concetti di dinamismo ed energia, e realizzare mediante l'arte tridimensionale della scultura, il paradosso di rappresentare il movimento attraverso una forma statica, con materiali che vanno dal metallo al marmo, ed altri quotidiani, poveri, elementari quali il legno, il vetro, lo spago, che di per sé non appartengono alla tradizione dell'arte. Nello stesso tempo Fontana attraverso la pittura, si pone lo stesso problema della scultura : come sfondare il muro dello spazio per arrivare a toccare il tempo. Così egli passa dalle forme legate al Barocco degli anni Trenta, a quelle legate all'astrattismo degli anni Quaranta, ai tagli e ai buchi che connotano ormai la sua classicità.
Arriva a questo risultato proprio creando un collegamento tra il bisogno di esplosione delle forme nello spazio del Barocco e dall'altro utilizzando la precisione che gli deriva dall'astrattismo geometrico per compiere il taglio fisico della tela, da chirurgo, netto, lineare, senza esitazione, così come lo sono il gesto del buco: uno in verticale e l'altro in profondità.
Il gesto del taglio e della penetrazione non hanno nulla a che fare con l'erotismo
dell'action painting, della gestualità pittorica che si sviluppa in America e in Europa in quegli anni, legata strettamente all'automatismo psichico del Surrealismo.
Mentre il gesto di Fontana è modulare, naturalmente supportato da un'energia quasi artigianale ma legato ad un percorso in verticale e in profondità costante, il bisogno del taglio e della penetrazione nella materia ha naturalmente anche una relazione con l'inconscio, con il bisogno di penetrare una materia chiusa e sconosciuta, ma complementare. L'approdo finale è infatti quello di una forma estremamente oggettiva che vuole suggerire anche un procedimento mentale, tanto più che Fontana dirà che il taglio e il buco sono atti mentali.
E' chiaro che l'atto mentale ha bisogno della materia per concretizzarsi, per non essere un gesto fantasmatico che Fontana vuole realizzare, per passare a un rapporto fisico, concreto con la realtà. Ecco che allora la superficie della pittura e la materia della scultura diventano come dei muri da sfondare per creare una possibilità di continuità tra spazio esterno dove sta lo spettatore e spazio interno dietro lo spettatore.
Ci troviamo così di fronte ad un artista che riesce a coniugare spazio e tempo attraverso la pratica della pittura e della scultura. Essendo pittura e scultura un atto mentale, le opere sono realizzate in maniera quasi moltiplicata. In questo senso Fontana non è un artista ripetitivo, non copia dal gesto precedente quello successivo ma compie appunto un atto mentale, legato alla concentrazione e dunque alla irripetibilità del momento.
Sviluppando questa ricerca, arriva a realizzare nel 1949 il primo "Environment", uno spazio-ambiente a Milano. Ne realizzerà un'altro nel 1951 per la Triennale di Milano "Via via altri" e l'ultimo nel 1968 a Kassel per Documenta.
La grande novità è che non esiste finalmente un centro dell'opera ma una disseminazione di punti di osservazione legati agli spostamenti fisici dello spettatore. In questo senso egli fa la massima coniugazione tra il Barocco, il Futurismo e la sensibilità delle esperienze del dopoguerra, per approdare dunque ad una produzione di arte totale che le avanguardie storielle avevano già teorizzato. E nello stesso tempo rappresenta una felice conclusione della profetica ricostruzione futurista dell'universo avanzata anche da Balla: dimostrazione di come Fontana è un grande artista sperimentale ma anche esperenziale, che sembra ricordare Leonardo da Vinci.
Egli coniuga insieme scultura e pittura: una superficie dipinta con un disegno che diventa un campo di delimitazione con lo sfondamento al centro. Non c'è il piacere della materia ma il progetto del suo sfondamento. E siamo al passaggio dal taglio al buco: lo sfondare la superficie con un chiodo determina una sorta di disseminazione di luoghi di attraversamento dello spazio. La forma ovulare e circolare dello spazio indica come egli voglia sempre individuare un campo magnetico. Anche quando Fontana sovrappone delle forme sulla tela sono di commento del gesto di sfondamento della stessa. Prosecuzione di una strategia progettuale che volutamente impoverisce la tecnica di intervento per esaltare la serialità del risultato formale. In alcuni casi il taglio non è centrale ma laterale proprio perché egli non predilige il centro, sapendo che questo è sintomo di staticità e crede invece alla mobilità della materia. L'uso di colori non è drammatico perché lo sfondamento non è violento, è semplicemente lavorare per l'arte, approdare a nuove dimensioni. Colori tenui, anche il rosa, degli azzurri, colori che non sono mai violenti. Quando il colore è forte come il rosso, allora viene attenuato da alcuni elementi bianchi o gialli. Viceversa quando il taglio è centrale è proprio perché egli vuole riaffermare la concettualità del gesto, conservando una sorta di coazione alla circolarltà sempre legata in qualche modo all'iconografia del buco. L'artista privilegia spesso non solo l'interno ma anche l'esterno delle forme ovulari e circolari, che assicurano l'idea della percorribilità e del ritorno della forma.
Nella sua volontà totalizzante egli è assertore di una mentalità tutta italiana che si evolve da Leonardo a Balla e trova la propria costante nella ricerca di un valore, quello dell'equilibrio tra i rigori della tecnica e dell'armonia.
Comunque negli artisti europei ed italiani del secondo dopoguerra, emerge un concetto di sana utopia negativa, intesa come coscienza dell'impossibilità dell'arte di fondare un ordine fuori del proprio recinto. In qualche modo prevale l'etica del fare sulla politica del creare, un'etica che in ogni caso individua un processo di messa a fuoco del procedimento ideativo ed esecutivo dell'arte.
Scarpitta lavora non sul segno e sul colore ma sull'evidenziamento dello spazio, esibendo vere e proprie "fasce d'energia" spaziali sulla lunghezza d'onda che va inizialmente dal Futurismo a Burri. La superficie si ingobbisce, si estroverte e acquista una tridimensionalità che allude fisicamente allo spazio aggrovigliato della realtà. Il materiale appartiene al piano dell'esistente e del vissuto, ma sottoposto al rigore di una tensione formale che sconfigge l'inerzia della materia e ne trasferisce l'accidente nella oggettività di una forma tesa e lampante. Successivamente trasferitosi in America amplifica il trend verso l'oggettivazione e costruisce macchine ironicamente celibi, frutto di un sistema combinatorio che riduce la cifra soggettiva dell'artefice.
Accardi regola lo spazio pittorico dentro un regime bidimensionale di segni, in cui instaura una relazione mobile di intreccio. L'ambiguità della visione è data dal ritmo organico dei segni che seguono un doppio movimento. Attraverso il primo, una sorta di matrice genera il segno che possiede una struttura di fondo che lo ripete. Attraverso il secondo, il segno prolifera e si modifica secondo una dinamica organica che rinvia al ritmo di crescita progressiva della natura. Il sistema segnico è retto da una struttura che gioca sull'alternanza dei motivi e su un ordine spaziale in cui pieno e vuoto si pareggiano. Anche la trasparenza interviene con i suoi materiali plastici a smaterializzare la pittura e ad accentuarne il ritmo mentale.
Altri artisti più giovani alla fine degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta hanno confermato il concetto dell'arte come attività specifica e autonoma. Per Castellani, Manzoni, Agnetti, Lo Savio e Paolini l'esperienza creativa è un'espressione che ha bisogno di tecniche specifiche e di una chiarezza di azione che controllano lo sviluppo dell'opera, ora considerata come una realtà in sé staccata dallo scopo soggettivo del suo creatore. Contro "l'eteronomia" dell'arte, questi artisti sostengono la sua autonomia; in opposizione al concetto di arte come avventura liberante e non controllata, impongono una coscienza politica del proprio ruolo, che li porta a vivere professionalmente la propria ricerca.
Questi artisti spezzano il cordone ombelicale con l'opera e adottano un cinismo attivo che permette il controllo della loro attività e l'analisi del linguaggio. Essi non credono più al valore assoluto dell'arte ma in una valore relativo che nasce solo dalla coscienza "metalinguistica" dell'arte come mezzo d'espressione. Questo nuovo atteggiamento può derivare soltanto da una riduzione dell'arte a zero, alle proprie regole fondamentali, riduzione che permette una ricerca come affermazione di tautologia linguistica. L'arte viene separata dal proprio indeterminismo e immessa all'interno di aree conoscitive più controllate e verificabili. Questo nuovo atteggiamento analitico (che pertanto trova nel gesto come misura di sé e dello spazio dell'arte di Fontana più di una ispirazione) determina un salto qualitativo anche politico, nel senso che l'artista non vuole più confondere arte e vita, risolvere le antinomie della storia mediante l'arte, può solo operare un approfondimento e un salto in avanti nella ricerca. Alla realtà parziale del quotidiano l'artista degli anni Sessanta risponde con la totalità relativa dell'opera, che ha ormai perduto tutte le proprie allusioni ai traumi dell'esistenza e ha invece acquistato un suo splendente superficialismo. Il superficialismo è coscienza del carattere ambiguamente bidimensionale del linguaggio, della sua qualità di essere oggetto e soggetto della creazione. Ora l'opera d'arte non esprime l'urgenza di spingersi verso la vita, ma piuttosto quella di analizzare la distanza che vi intercorre e la peculiarità del linguaggio artistico rispetto a quello della comunicazione quotidiana. L'artista si considera come colui che esercita una professione specializzata con un oggetto ben individuato, il linguaggio: il linguaggio preesiste all'opera e il suo luogo è la storia dell'arte. Ma l'artista, inserito nella storia e sottoposto ai suoi contraccolpi, sente la precarietà dell'esistenza fino alla coscienza lucida dell'impossibilità di riscattarla attraverso l'immaginario. L'immaginario risponde ad alcune regole esatte che sono poi quelle del linguaggio, esso è sempre fondato dentro la realtà, ma perché si formuli nell'opera è necessario un procedimento rigorosamente analitico che scinda il disordine della vita e l'ordine dell'arte.
Il procedimento analitico di Castellani, Colombo, Dadamaino, Mauri, Nigro, Uncini, Manzoni, Agnetti, in un certo senso Schifano, Lo Savio e Paolini non poggia su convenzioni precedenti, cerca di fondare un proprio metodo di verifica, contestuale all'opera, in maniera che niente esista prima o dopo di essa. Viene così a scadere quel margine di atteggiamento metafisico che rimaneva nell'arte informale, per cui l'opera è la continuazione della vita e la vita il prima e il poi dell'opera.
"Il solo criterio compositivo possibile nelle nostre opere sarà quello non implicante una scelta di elementi eterogenei e finiti, che posti in uno spazio finito istantaneamente determinano l'elaborato al punto da togliere irrimediabilmente la possibilità di qualsiasi ulteriore sviluppo che non sia sul piano prettamente grafico o solo metaforicamente spirituale dell'evoluzione delle forme nello stesso limitato spazio, scelta che di altro non
testimonia se non della vanità di chi per averla fatta se ne compiace; ma il solo che attraverso il possesso di un'entità elementare, linea, ritmo indefinitamente ripetibile, superficie monocroma sia necessario per dare alle opere stesse concretezza di infinito, e possa subire la coniugazione del tempo, sola dimensione concepibile, metro e giustificazione della nostra esigenza spirituale" (Enrico Castellani)
Castellani ha operato nell'ambito della ricerca modulare per investigare la nozione di spazio. L'opera si configura come superficie incolore, che contiene l'elemento spaziale, come estensione bidimensionale, e l'elemento temporale come modificazione ritmica della superficie stessa, nel senso della profondità. Superficie e scansione sono le due polarità che coniugano l'opera e la definiscono in termini di misura e di esperienza come avviene anche negli "Schermi" di Mauri che nella loro nuda oggettualità evidenziano la sostanza tautologica.
Gli "Achromes" di Manzoni sono superfici prevalentemente bianche formate con diversi materiali che organizzano una porzione di spazio rinviante soltanto a se stesso. Una concezione metonimica presiede l'opera, sostituendo la visione metaforica che è alla base dell'arte degli anni Cinquanta: la materia e il taglio erano pur sempre metafore delle forze originarie della natura e tracce dello spazio reale. Gli "Achromes" sono solo ciò che si vede, una fenomenologia particolare dello spazio ridotto a evento visivo e concreto. Il quadro è il portato di un procedimento in cui tutti gli elementi sono sotto il controllo emotivo dell'artista che da all'opera una sua identità separata e autonoma. Sono eventi concreti che presentano immagini diversificate dello spazio pittorico, spazio volutamente incolore che non contiene tracce do soggettività. Con queste opere e le successive carte d'identità, Manzoni ha anticipato temi riguardanti la pittura e l'arte del comportamento. Se gli "Achromes" consistono nell'azzerare la pittura come espressione, le opere realizzate al di fuori del campo della pittura, intendono fronteggiare l'arte e la vita, per farne un'esperienza non metaforica e formale ma autentica e reale.
Agnetti ha operato contro il carattere specifico dei vari linguaggi, facendone un uso intercambiabile: il linguaggio matematico, formulato attraverso la presenza visiva dei numeri, sostituisce il linguaggio letterario. Ne consegue un iniziale azzeramento e una successiva amplificazione, che trova significato nel suo carattere universale quale mezzo di comunicazione. Naturalmente la comunicazione s'avvera mediante l'oggettività di un linguaggio che cerca i propri referenti nella scienza e nella filosofia, nella citazione astronomica e nella formula algebrica.
Lo Savio ha anticipato la ricerca primaria condotta dalla Minimal Art, con un'analisi degli elementi strutturali su cui poggia la nozione di pittura e scultura : la luce e lo spazio. I "Filtri" e i "Metalli" evidenziano tale analisi, mediante una rappresentazione essenziale e fenomenica della luce e dello spazio come evento concreto. La luce non viene rappresentata nei ritmi geometrici di Balla, piuttosto evidenziata e resa volumetrica per un assetto formale che la inquadra e la inscatola concretamente.
Paolini ha perseguito un'analisi dell'arte come sistema autonomo e autoreferenziale. La sua ricerca si muove nei labirinti del linguaggio dell'arte e della sua storia lungo un percorso che si snoda entro i confini del suo dominio. Artifìcio e specularità sono le qualità della rappresentazione: artifìcio come differenza e specularità come movimento interlocutore del linguaggio all'interno del codice dell'arte. Tale analisi non trova il suo sbocco in una semplificazione formale ma esalta un particolare carattere del processo conoscitivo mediante l'allusione al doppio e al labirinto.
Se da una parte questi artisti hanno introdotto nell'arte negli anni Sessanta la necessità del procedimento analitico, dall'altra Ceroli, Schifano, Festa, Pascali e Kounellis si sono mossi per procedimento sintetico. Ceroli ha laboriosamente adoperato il legno, come materiale compositivo dell'opera, astratta o figurativa. Con rigore formale egli ha costruito spazi e volumi partendo da un materiale legato alla natura. In un'epoca di riproduzione meccanica dell'immagine, egli ha realizzato un paesaggio di sagome, un metafisico standard figurativo, con un intreccio puntuale ed equilibrato tra la fredda temperatura del concetto e quella calda della memoria : sequenze di natura-naturata nelle forme dell'arte.
Schifano con i suoi "Monocromi" azzera lo spazio pittorico, iscrivendovi letteralmente il suo carattere superficialista, con colori squillanti ed aggressivi, recupero dell'iconografia urbana, memoria d'archivio futurista e prodotta dai mezzi di comunicazione di massa. Accanto a tali opere egli successivamente recupera anche dettagli di paesaggi naturali ed altri come "Incidenti d'auto" dove sembra evidente il precoce riferimento alla figurabilità ritmica di Balla. Anche qui il colore trova una sua accentuazione cromatica nei timbri squillanti e artefatti. L'immagine è il prodotto di una velocità esecutiva che rimanda a un idea del tempo di tipo futurista, in cui accelerazione del procedimento e rallentamento della forma si attraversano incessantemente.
Festa opera nella direzione di una neo-metafisica capace di affermare il carattere di una cultura che conserva le sue radici seppure subisce l'impatto con la società del consumo dove il mito diventa immagine riprodotta e riproducibile. La sua pittura conserva un'aura letteraria e la memoria umanistica di un valore, quello dell'arte. Da qui la calibrata immobilità dell'immagine, l'oggettiva formulazione della figura che diventa il portato di un'apparizione particolare e il risultato di una cultura "universale", su cui aleggia l'ombra protettiva e metafisica di De Chirico col suo inquietante senso della misura.
Pascali ha sviluppato progressivamente un lavoro fra pittura e scultura, una sorta di oggettistica finale in cui emerge un equilibrio tra la limpidezza della forma e la profondità degli elementi. "32m2 di mare" rappresenta l'esito felice sul versante mediterraneo di una linea capace di coniugare la ripetizione della struttura portante e il movimento liquido dell'acqua. In questo caso l'aura "Minimalia" dell'opera riesce a proteggere la profondità complessa del tema proprio attraverso il rigore di un metodo ripetitivo.
I procedimenti analitico e sintetico sono alla base dello sviluppo dell'arte alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta nei suoi caratteri processuali, concettuali e comportamentali.
Il carattere concettuale nasce dalla volontà di spostare le mire dell'arte dai suoi tradizionali oggetti e materiali. Fino agli anni Sessanta l'arte ci aveva abituato a oggetti e forme concrete. L'arte concettuale, invece, si pone come scopo la ricerca della propria nozione e del proprio significato. L'opera d'arte consiste nell'analizzare e nell'investigare il linguaggio artistico specifico e il sistema che lo accoglie. Così si arriva ad un'arte smaterializzata, che non impiega più forme e materiali durevoli. I materiali possono essere fogli di carta, discorsi verbali sull'arte, riflessioni filosofìche sul sistema artistico: l'arte passa da un metodo di intuizione a un metodo di analisi, proprio dell'attività scientifica e filosofìca. Se l'arte precedente si fondava sull'ambiguità intenzionale del significato, l'arte concettuale assume i dati della scienza e il bisogno dell'esattezza e del significato univoco. Sia che si punti sul processo, sul concetto o sul comportamento, l'arte italiana degli anni Sessanta sempre si pone fuori dalla nozione di poetica, intesa come fedeltà ossessiva a uno stesso materiale o a una immagine costante. La poetica è la cifra che funziona come griffe, marchio di riconoscimento, il dato che assegna l'appartenenza dell'opera al suo artefice, che nasce sempre da un bisogno di coerenza e fedeltà dell'artista con se stesso. In questi anni questi sfugge la paralizzante nozione, puntando su una programmatica infedeltà che gli consente di realizzare opere apparentemente contraddittorie.
L'artista si pone così in sincronia con la fìtta rete di accadimenti della realtà, che si formano e si evolvono sotto il segno della contraddizione. Contraddizione che ormai egli tende a inglobare sistematicamente nel proprio lavoro.
Pistoletto è intenzionalmente passato attraverso varie fasi di lavoro, con opere che ribaltano e spiazzano tutta la prima fase della sua ricerca sugli specchi.
Attraverso i suoi specchi ha insinuato un enigmatico trompe l'oeil di arte e vita. Le sue "Lamiere speculari" contengono immagini sovrapposte di oggetti quotidiani o figure di persone fissate in un gesto. Lo spettatore, posto di fronte all'opera si rispecchia e quindi assume una doppia posizione, di oggetto riflesso e soggetto mirante. Il tempo è l'elemento che scandisce l'efficacia dell'opera. A questo lavoro sullo specchio Pistolotto si è sottratto con uno scarto laterale, quel passo del torero che egli stesso ha teorizzato in un libretto del 1967: "le ultime parole famose". Da qui egli è ripartito per riconfermare un sistema linguistico in cui il concetto prevale sull'oggetto.
Nell'ambito processuale hanno operato artisti come Anselmo, Fabro, Boetti.
Anselmo con il suo lavoro intende irretire le relazioni spaziali e temporali di categorie astratte del pensiero, come i termini, "tutto", "particolare" e "infinito". Il particolare viene segnalato come un'area luminosa, prodotta da un proiettore sulla parete o sul pavimento della galleria, resa come spazio totale. Così il termine linguistico viene ad identificarsi con la sua determinazione fisica, nella sua presenza spaziale e temporale.
Fabro opera su un'arte come evento di conoscenza, in cui l'esibizione materiale dell'oggetto diventa sollecitazione a nuove formulazioni del pensiero. L'uso di materiali impropri e il loro accostamento stridente provocano trame inedite, che interdicono una lettura in termini di passiva normalità. All'apparente tautologia linguistica si contrappone un'effettiva contraddizione mentale : uno spiazzamento dell'immagine, che lega l'arte come pratica ideologica.
Boetti propone un'attenzione differente e un sistema di relazioni ambivalenti nell'ambito di date esperienze che preesistono al suo intervento. L'arte diventa un linguaggio carico di virtualità, rispetto all'assopimento e alla rigidità degli altri linguaggi, l'attitudine di un'intelligenza che lascia affiorare l'alveo nascosto delle cose, qualità intrinseche percepibili all'atto creativo.
Nell'ambito concettuale operano Lombardo, e oltre ad Agnetti, artisti come Prini e Isgrò. Mentre l'analisi di Lombardo ha come oggetto il codice gestuale che diventa performativo attraverso il sistema mediatico, quello di Prini verte sullo standard, quale unità di misura e modulo preesistente all'intervento dell'artista. Egli assume nella sua investigazione elementi codificati nella loro forma dall'uso e li trasferisce nel contesto dell'arte, dove il materiale non subisce cambiamenti ma viene impiegato come modello di informazione. Isgrò concettualizza l'esperienza della poesia visiva introducendo una investigazione sull'interstizio che resta tra parola e immagine nell'intreccio compositivo.
In un campo trasversalmente comportamentale si situa l'opera di artisti come Kounellis, Pisani e Salvo.
Kounellis lavora su un recupero poetico del mito, sull'uso degli elementi primari come il fuoco e dei linguaggi originari, come la danza e la musica. Trasferisce i procedimenti della pittura nella fisicità di uno spazio reale, che acquista la composta fissità del quadro. Le sue performances ed installazioni tendono a sottolineare l'impiego diverso della sensibilità, intesa come capacità di percepire il mondo al duplice livello di natura e cultura. Tale duplicità trova la propria rappresentazione in un immagine ispirata da una forte classicità di intense ma rigorose forme, impregnate da un evidente metodo socratico. L'arte diventa il luogo visibile che formalizza in maniera esemplare i conflitti della storia, e li risolve nella catarsi dell'avvenimento creativo.
Pisani ha sempre operato attraverso il procedimento della citazione, rivolta verso i materiali della cultura piuttosto che verso quelli della natura. Il suo è un lavoro di analisi critica e sistematica dell'opera di Duchamp e delle categorie culturali in essa contenute: l'alchimia, l'incesto, il cannibalismo, il maschile e femminile, l'androgino, fino all'analisi comparata con la "Gioconda" di Leonardo. Altri temi critici, la figura artistica di Beuys, come eroe e demiurgo, e quella di Edipo. L'arte diventa strumento di misura della cultura e della storia, capace di condensare nelle proprie forme temi di eterno ricorso legati agli enigmi della vita e della morte.
Il lavoro di Salvo consiste in una celebrazione della propria figura di artista. Inscrive il proprio nome o la propria immagine in contesti di situazioni o di opere d'arte del passato che lo fondano come presenza mitica ed estraniata. Il lavoro artistico diventa il supporto su cui erigere il proprio monumento che trova la sua massima espansione narcisistica nell'autoritratto, ampliata dal giuoco dei ruoli e delle situazioni, realizzata con tecniche e materiali differenziati: dalla lapide di marmo alla pittura.
In ambito decisamente post-concettuale operano Mochetti, Spalletti, Bagnoli, Salvadori e Piacentino.
Piacentino accetta l'idea dell'arte come rigoroso redesign delle forme, allestendo oggetti tridimensionali, presentati in maniera fortemente lontana sul piano estetico dai colori tradizionali che accompagnano la pittura e la scultura. Egli desume lo splendore cromatico della sua oggettistica dal regesto meccanico dell'universo tecnologico. Di queste Piacentino ne evidenzia la geometria metafisica.
L'opera di Bagnoli è un'investigazione sulla qualità fisica e mentale dello spazio e del tempo, nelle loro virtualità e dialettica aperta della moltiplicazione "spazio per tempo"; un'analisi del concetto di limite, dell'interstizio come luogo germinale delle differenze e delle opposizioni. Viene infranto il principio di centralità a favore di relazioni oblique e mobili.
Salvadori svolge un'indagine principalmente sul tema dello sdoppiamento dell'unità e come compresenza di due polarità opposte: ad esempio, l'elemento maschile e femminile, il dritto e il rovescio. La linea è il diaframma che separa e differenzia l'identità e la somiglianza, e può essere accostata a quel luogo mediano nel generare le due facce della simmetria, situandole su due piani opposti e inconciliabili.
Nella metà degli anni Settanta l'arte ribalta la pura presentazione grammaticale dei materiali elementari, in un'atteggiamento più sapientemente colto. Infatti prevale una tensione verso la rappresentazione, che riporta il riferimento alla natura nell'ambito della citazione, un recupero culturalizzato e filtrato dalla memoria storica dei linguaggi dell'arte. Recupero che nasce dal bisogno di superare la soglia della pura presentazione dei materiali, in favore di una rappresentazione capace di una maggiore, più articolata culturalmente, ed autonoma rispetto alla parola forte del politico che condiziona la mentalità dell'arte negli anni Sessanta, fino alla rinuncia del piacere della complessità dell'opera. L'arte dunque avvia un salutare processo di deideologizzazione, supera l'idea euforica dell'esperienza creativa come eterno movimento sperimentale e coazione al nuovo, mediante l'assunzione di maniere più meditate.
Il polo drammatico trova un suo ridimensionamento nell'introduzione di un accento ironico e consapevole che porta l'opera fuori dal rapporto di scontro ambizioso e ingenuo col mondo. L'ironia, come passione che si libera nel distacco, accentua il carattere di lateralità del linguaggio e introduce la possibilità di un ulteriore piacere, non disgiunto dalla funzione conoscitiva dell'arte.
La catastrofe energetica, politica e culturale nella seconda metà degli anni Sessanta ha avuto il benefico effetto di decongestionare il tessuto dell'arte, logorato da uno sperimentalismo collegato all'ottimismo produttivistico del sistema economico negli anni Settanta.
Lo Sperimentalismo aveva assunto il carattere dell'impersonalità e dell'oggettività puntando non solo sulla comunicazione bensì anche sull'informazione della struttura linguistica dell'opera. Indubbiamente una tensione analitica pervade la ricerca artistica degli anni Sessanta e Settanta, una sorta di atteggiamento antagonista e mimetico del carattere delle scienze. Al lavoro astratto e smaterializzante della ricerca da laboratorio coincide quello destrutturante e smaterializzato dell'arte.
La Transavanguardia ha risposto in termini contestuali alla catastrofe generalizzata della storia e della cultura, aprendosi verso una posizione di superamento del puro sperimentalismo di tecniche e nuovi materiali approdando al recupero dell'inattualità della pittura, intesa come capacità di restituire al processo creativo il carattere di un nuovo erotismo, lo spessore di un'immagine che non si priva del piacere della conoscenza e della memoria culturale.
All'omologazione linguistica degli anni Sessanta e Settanta, l'arte degli anni Ottanta risponde con il recupero del procedimento della citazione, capace di adoperare la storia dell'arte come ready-made e gli stili del passato come objet trouvé. Una sintesi dunque tra mentalità picassiana e duchampiana, con una implicazione concettuale che accetta la definizione di Leonardo "la pittura è cosa mentale".
Clemente opera sullo spostamento progressivo dello stile, sull'uso indifferenziato di molte tecniche. Il lavoro è accompagnato e sostenuto da un'idea dell'arte per niente drammatica che riesce a trovare nel nomadismo della leggerezza la possibilità di un'immagine in cui si incrociano ripetizione e differenza. La ripetizione nasce dall'uso intenzionale di stereotipi, di riferimenti e stilizzazioni che permettono di portare nell'arte anche l'idea della convenzionalità. Ma tale convenzionalità è soltanto apparente, in quanto la riproduzione dell'immagine non avviene mai in maniera meccanica e pedissequa; anzi tende a realizzare sempre delle variazioni sottili e imprevedibili che creano nell'immagine riprodotta uno spostamento, mediante un'idea orientale di spazio, cioè circolare. Il "figurabile" è attenuato da una concettuale presenza dell'ornamentazione.
De Maria vuole sconfinare dalla cornice del quadro ed uscire nello spazio ambientale, dove realizza un campo visivo all'incrocio di molti rimandi. La pittura è strumento di rappresentazione per uno spostamento progressivo verso la smaterializzazione.
Stato mentale e stato psicologico si fondono in una immagine che opera sulla frammentazione dei dati visivi. Il risultato è una sorta di architettura interiore che accoglie dentro di sé tutte le vibrazioni insite nel progetto dell'opera. Ogni frammento vive un sistema di relazioni mobili, in modo che non esistano punti privilegiati e centrali. Alla nozione di spazio De Maria sostituisce quella di campo, una rete dinamica e potenziale di rapporti che trovano la loro costante visiva nell'astrazione e nell'idea di arte totale.
Paladino realizza una pittura di superfìcie. Egli pratica un'idea di superfìcie come ultima profondità possibile. Così hanno emergenza visiva tutti i dati della memoria culturale e della sensibilità personale, tenuti insieme nel perimetro di una pittura che va incontro alla scultura e ad un sistema formale che rinvia all'ordine spirituale di Malevic. L'opera diventa il luogo della traduzione in immagini di motivi sottili e impalpabili. Segni della tradizione astratta, e quelli più evidenti di una figurazione che accetta la coesistenza geometrica.
In definitiva l'arte italiana degli ultimi decenni ha accettato progressivamente un'idea dell'arte come realtà autonoma rispetto all'esistenza del suo creatore, oscillando tra la neutralità del procedimento analitico e la parzialità del procedimento sintetico. In ogni caso gli artisti assumono stoicamente la coscienza della parzialità del proprio ruolo, sottraendosi alla frontalità di un ruolo positivo che ormai sembra appartenere alla politica e non al processo creativo. All'arte spetta piuttosto la lateralità di una posizione riflessiva e critica che utilizza il linguaggio e le sue metafore come riserva indiana nei riguardi di un mondo inaccettabile. Da tale consapevolezza nasce la coscienza di un ruolo che, seppur esercitato, non può risolvere i problemi al di fuori dell'arte e può solo sviluppare la propria ricerca dentro i territori del linguaggio.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il rigore diventa un'istanza morale dell'opera, l'approfondimento linguistico della pittura e della scultura un momento che connota il lavoro creativo fuori da ogni retorica di immediatezza espressiva. La giovane generazione continua anch'essa a lavorare come la Transavaguardia, partendo da un deposito di energia culturale che costituisce il deterrente indispensabile per fondare il segno della nuova opera, come si evince nel lavoro di Bianchi e Gallo.
Bianchi pratica una pittura in cui l'elaborazione è fonte e matrice di germinazione del segno. I colori chiari adoperati servono anche a tenere l'opera in bilico tra pittura e disegno, con una manualità che ritorna continuamente sui propri passi e continua a rielaborare un linguaggio fatto di vari spessori e rimandi, tutti legati comunque alla spiritualità dell'artista, di chi vive l'arte come dimensione progettuale che parte dalla materia e si allarga in un movimento di smaterializzante elevazione, dove avviene l'epifania di un segno, levitazione della materia nella oggettività della forma.
Gallo ha sviluppato una pittura e una scultura che misurano metafisicamente la condizione di tensione equilibrata tra le forme. Egli affronta l'universo delle forme iconiche che rimandano sempre ad oggetti riconoscibili per restituire loro una diversa identità e nobiltà di posizione. Una posizione nutrita di una sottile energia mentale che stabilisce relazioni particolari delle forme tra loro, tra stasi apparenti e spostamenti concettuali. Idea e forma vivono incarnate tra loro e aiutano gli oggetti a perdere quel peso che li connota. La memoria non è un peso ma propellente che aiuta le forme a disporsi come nuove sulla scena silenziosa ritagliata dalla cornice.
Negli anni Novanta, "l'opera italiana" è il risultato di un intreccio stilistico che ingloba dentro di sé l'ornamentazione astratta e l'essenzialità figurativa, la geometria di un linguaggio costruito secondo l'ordine di un progetto dolce, la fondazione di un ordine linguistico che cerca la definizione formale e non soltanto l'espressione. Tali caratteri corrispondono ad un'urgenza sistematica, ad una tensione creativa che cerca ormai di stare tra le polarità di un linguaggio costruttivo, capace cioè di dar conto attraverso il risultato e non altrimenti dell'identità dell'artista, come si evince nel lavoro di Pirri ed ora Martegani Pancrazzi e Manfredini.
Sicuramente questi giovani artisti percorrono un'esperienza creativa che vuole ridare all'arte un linguaggio unitario seppur giocato sotto il segno di una frammentazione formale che conserva il carattere disseminato di un'operazione alla seconda, che non crede alla creazione allo stato puro, ad una visione romantica che possa affermare la superba sicurezza dell'originalità. Essi semmai si muovono sotto la spinta di una tensione formale tesa alla costruzione di nuova oggettistica o pittura, comunque forme rappresentative di una condizione morale che cerca di opporre al disordine del mondo il motivato ordine formale della propria opera.
Ora nella seconda metà degli anni Novanta ed alla fine del XX° secolo l'arte si trova a confrontarsi con un difficile contesto dominato dalla telematica che trova identità produttiva nella realtà virtuale e nell'anoressia dell'immagine.
La smaterializzazione e la demateriahzzazione dell'oggetto esaltano la capacità penetrativa della telematica negli spazi domestici mettendo in discussione anche la statica architettura del museo e della galleria.
Contro tale anoressia falsamente vitale che trova il proprio terminale nello spazio e nell'habitat domestico, l'arte sviluppa una felice resistenza, la produzione di ultra-corpi le cui forme si sviluppano per oggetti circoscritti fino alla pervadenza dell'installazione.
In tal modo viene smantellato il concetto di habitat come alveo materno, archetipo architettonico ed indistruttibile nella civiltà mediterranea.
La precarietà installativa fonda la mobilità di una casa post-mediterranea intesa come non-luogo, disancorata dal concetto di stanzialità geografica.
L'artista si misura dunque, seppur in termini di lateralità riflessiva, col proprio contesto, sviluppando una produzione di forme che insistono più sul livello concettuale di differenza che su quello di mimetica spettacolarizzazione.
Riducendo ogni metafisica vetrinizzazione, l'arte italiana del XX° secolo sembra voler stimolare nello spettatore la dignità silenziosa di una riflessione lampante e progressiva, la produzione di una diversa visibilità che si sviluppa a partire dalla "cosa mentale" dell'opera.
Una visibilità non statica e statistica ma germinatrice di nuove realtà visive. Come Boccioni riconosce a Balla: "egli applica ferreamente la teoria di fare di una macchina un paesaggio". Un paesaggio sì, ma naturalmente pensante.