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MINIMALIA
Una linea italiana del XX° secolo
di Achille Bonito Oliva
"Nell'arte ogni tipo
di espressione progredisce e si evolve. Una sola cosa rimane
sempre uguale a sé stessa: l'avanguardia" (Louis
Jouvet)
II XX° secolo ha visto
l'arte italiana sempre in prima linea con movimenti che ne hanno
caratterizzato ricerca e sperimentazione nel rispetto di una
memoria storica che ha evitato soluzioni schematiche e riduttive.
Dalle Avanguardie storiche alla Neoavanguardia, dal Futurismo
all'Arte Povera, dalla Metafìsica alla Transavanguardia
è possibile riscontrare una linea mediterranea e cosmopolita
dell'arte italiana capace di rappresentare la modernità
ma senza appiattirsi sui modelli nordeuropei ed americani. Indubbiamente
l'arte contemporanea, operando in un contesto ad alto sviluppo
tecnologico, ha adottato nel suo svolgimento un metodo di analisi
e riduzione linguistica che meglio mettono in evidenza le volontà
di comunicazione nella società di massa.
Se il Minimalismo nordamericano confina sempre con la pura riduzione
geometrica, lo standard del grattacielo e della forma semplice,
è possibile rintracciare un "Minimalia" italiano,
capace di trattenere nel rigore delle proprie forme tratti di
complessità non riducibili alla pura geometria. "Minimalia"
dunque è una mostra che evidenzia una linea originale
e nello stesso tempo universale dell'arte italiana, partendo
dal Futurismo e arrivando ai giovani artisti d'oggi con opere
di grande importanza museografica tratte da collezioni pubbliche
e private.
"Minimalia" è una mostra sulla ricerca artistica
contemporanea in Italia, in particolare su quella linea che si
dipana dal dopoguerra ad oggi giungendo spesso in anticipo su
molti fatti internazionali. Quale antesignano di tale linea qui
si indica un grandissimo artista delle avanguardie storiche di
cui credo sempre più sarà chiara la priorità
nel processo che porta alla nascita dell'astrazione, che non
significa astrattismo ma piuttosto capacità di cogliere
l'immagine nella sua struttura concettuale. E' curioso notare,
come in quasi tutti i casi l'origine dell'astrazione sia legata
ad un sostrato di cultura esoterica: Picabia interessato all'alchimia,
Mondrian vicino alla teosofia. In quasi tutti i casi inoltre
"l'invenzione" dell'astrazione nasce a stretto contatto
con la musica, la più immateriale delle arti basata su
astratti e matematici rapporti: il precursore Ciurlionis, l'artista
lituano che influenzò Kandinsdkij, era anche musicista.
La moglie di Picabia, Gabrielle Buffet, era allieva del maestro
Busoni, il musicista ritratto in una delle ultime magistrali
opere di Boccioni, che per altro in uno scritto su Balla ne evidenzia
la "purezza suprema, una specie di sensibilità scientifica
che doveva condurlo fatalmente all'interpretazione presente."
Per Giacomo Balla il principio dell'astrazione è nell'analisi
della luce. "Le compenetrazioni iridescenti" scompongono
la luce nei suoi colori disposti secondo forme triangolari che
corrispondono alla struttura del raggio luminoso. E' la riduzione
dell'arte al suo elemento essenziale, la luce, e di questa le
sue componenti di base.
Senza dubbio il valore della progettualità assume un peso
determinante nella strategia linguistica dell'arte italiana dalla
fine del Quattrocento alla fine del XX° secolo, in quanto
portatrice di particolari articolazioni della materia ideata
dall'artista. Egli predispone una forma iniziale che si sviluppa
progressivamente attraverso momenti modulari che moltiplicano,
senza ripetizione, quello di partenza. Già la prospettiva
rinascimentale, forma simbolica di una visione antropocentrica
del mondo ed esaltatrice della ragione, opera sulla rappresentazione
dello spazio mediante l'uso della geometria euclidea. Questa
geometria nel suo impiego presuppone il senso della misura e
di una resa iconografica essenziale. Astratto o figurativo, come
si evince nella Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, il
motivo pittorico diventa oggetto di una rappresentazione filtrata
da un occhio progressivamente analitico, che farà affermare
a Leonardo da Vinci : "la pittura è cosa mentale".
Tale mentalismo sostiene lo sviluppo dell'arte italiana anche
attraverso l'accelerazione spaziale del Barocco e regge finanche
il suo passaggio dall'Ottocento al Novecento, fino alle sue prime
decadi occupate dal Futurismo alla Metafisica, producendo fenomeni
di espansione ed assottigliamento formale. Pure l'opera scultorea
di Medardo Rosso, precedente a questi movimenti di avanguardia
è attraversata dal desiderio di smaterializzazione, il
tentativo di portare la scultura verso uno stato di assotigliamento
vicino alla pittura.
Anche la Metafisica di De Chirico fonda la propria iconografia
su uno spaesamento dell'immagine sotto il controllo della misura
prospettica. Anche qui un senso della misura tende a dare essenzialità
e nitore epifanico all'immagine.
In qualche modo una progettualità tutta italiana regge
la mentalità della nostra arte nel XX° secolo, una
interpretazione della modularità intrisa da un esprit
de geometrie, un vapore mentale diffuso che tocca i versanti
della produzione iconica e di quella aniconica.
Il modulo diventa l'elemento strutturale che fonde la possibilità
della forma giocata sempre sulla complessità che moltiplica
potenzialmente all'infinito la sorpresa della geometria. Convenzionalmente
la geometria sembra essere il campo della pura evidenza e dell'inerte
dimostrazione, il luogo di una razionalità meccanica e
puramente funzionale. In questo senso sembra privilegiare la
premessa, in quanto la conclusione diventa lo sbocco inevitabile
di un processo deduttivo e semplicemente logico. L'artista italiano
ha invece fondato un diverso uso della geometria, come campo
prolifico di una ragione irregolare che ama sviluppare asimmetricamente
i propri principi, adottando la sorpresa e l'emozione. Ma questi
due elementi non sono contraddittori col principio progettuale,
semmai lo rafforzano mediante un impiego pragmatico e non preventivo
della geometria descrittiva.
Non a caso l'artista passa continuamente dalla bidimensionalità
del progetto all'esecuzione tridimensionale della forma, dal
bianco al nero dell'idea all'articolazione policromatica. A dimostrazione
che l'idea ingenera un processo creativo non puramente dimostrativo
ma fecondante e fecondo. La forma finale, bidimensionale o tridimensionale,
propone infatti una realtà visiva non astratta ma concreta,
pulsante sotto lo sguardo analitico ed emozionante dello spettatore.
Il principio di una ragione asimmetrica regge l'opera che formalizza
l'irregolarità come principio creativo. In questo senso
la forma non si esaurisce nell'idea, in quanto non esiste fredda
specularità tra progetto ed esecuzione. L'opera porta
con sé la possibilità di una asimmetria accettata
ed assimilata nel progetto, poiché partecipa della mentalità
dell'arte moderna e della concezione del mondo che ci circonda,
fatto di imprevisto e di sorprese.
In tal modo il concetto di progettualità viene investito
di un nuovo senso, non rimanda più ad un momento di superba
precisione, ma semmai di verifica aperta, seppure pilotata da
un metodo costruito mediante la pratica e l'esercizio esecutivo.
Il metodo rimanda naturalmente ad un bisogno di parametro costante
e progressivo, ancorato ad una coscienza storica del contesto
dominato dal principio della tecnica. La tecnologia sviluppa
processi produttivi, ancorati sulla standardizzazione, l'oggettività
e la neutralità. Principi costitutivi di una diversa fertilità
rispetto a quella costruita sulla tradizionale idea iper-soggettiva
della differenza.
In questo l'artista italiano classicamente moderno, è
portatore sano di un'arte capace di produrre differenze mediante
la creazione di forme che utilizzano standardizzazione, oggettività
e neutralità in maniera fertile, capace di filtrare nell'immaginario
di una società di massa pervasa dal primato della tecnica
e da questa svuotata di soggettività. Ma questo svuotamento
non è visto come una perdita, come potrebbe sembrare ad
una mentalità tardo-umanistica o marxista. Invece diventa
il portato di una nuova antropologia dell'uomo che funziona secondo
un metabolismo di ragione modulare che non significa però
ripetizione simmetrica ma moltiplicazione asimmetrica, applicazione
appunto delle nuove regole del caso intelligente contrapposto
al caos indistinto. Caso intelligente significa capacità
dell'uomo di accettare la discontinuità senza cadere nella
dispersione di una razionalità incapace. L'accettazione
nasce dalla perdita di superbia da parte del logocentrismo occidentale
che ingloba la paziente analiticità del mondo orientale
e si muove pragmaticamente non in assetto di guerra ma di disponibilità
verso il mondo. II sogno dello stile abita l'opera di Balla attraversato
naturalmente dal dinamismo futurista, che non significa però
semplice astrazione bensì anche fascino dell'essenzialità
formale e complessità di motivi sottesi. Perché
i rigori della tecnica e dell'armonia comportano sempre un'essenzialità
che confina con la stilizzazione, effetto questo della produzione
tecnologica.
Balla crea macchine formali che contengono dentro di sé
l'idea della costruzione e dell'incastro, una complessità
sempre montabile e smontabile a vista d'occhio.
Anche il quadro e il disegno sono costruiti con una volumetria
che riesce a coniugare insieme i principi del dinamismo virtuale
e quello di una stasi iniziale. Le forme sono disegnate e dipinte
con spessori e gusto cromatico forte ed accentuato capaci di
restituire il senso dell'artificio della scena urbana. Una vitalità
segna le figure e gli oggetti, fecondati dall'uso di linee curve,
la cui consistenza volumetrica sembra apparentemente contraddire
il principio futurista della velocità che scompone i corpi
e li rende astratti. Nello stesso tempo l'immagine ha sempre
una valenza onirica, frutto di montaggio di situazioni inedite
ed accostamenti fuori dall'usuale. Il Futurismo è riconducibile
all'apparizione di una turbolenza che scuote lo spazio in maniera
da accostare per accelerazione gli oggetti tra loro, ma senza
farli deragliare fuori dalla legge di gravità. Le figure
sono appena segnate e non rifinite, date a grandi colpi come
per creare uno spettacolo atto ad uno sguardo incantato e infantile.
Un senso del gioco attraversa l'opera, al limite di una ornamentazione
capace di suscitare allegria e leggerezza. "Balla ha una
mentalità tra l'infantile e il caotico" afferma Boccioni.
L'arte come spettacolo della misura è la concezione sottesa
alla produzione di questo artista che ha sviluppato un universo
di immagini paradossi per un paese come l'Italia ancorato a una
civiltà preindustriale. L'idea che abita le composizioni
di Balla nasce senza dubbio dal ritmo della città moderna,
fatta di avvenimenti che si accavallano incessantemente ed in
maniera eclatante. L'ornato è la conseguenza di questa
teatralizzazione che mette in evidenza motivi di decorazione
quali segni di dinamismo. E' il sentimento di fondo dell'opera,
affermativo di un'arte che mette in scena la vita per movimenti
e mutamenti, in un'ottica di progressiva conoscenza. Nello stesso
tempo la stilizzazione di questi meccanismi visivi è il
portato della consapevolezza di una prossima civiltà industriale
che attraverso lo stile produce serialità e possibilità
della ripetizione.
Ma le immagini di Balla sono paradossalmente irripetibili, in
quanto bilanciate da un sentimento dell'ironia che travolge le
figure. L'allegria abita tutte le composizioni e le dispone sotto
un segno di celebrazione della vita più che della macchina,
del gioco più che della produzione. In definitiva per
Balla la città è lo spazio degli incontri casuali
il luogo della dinamizzazione dell'esistenza imprevedibile che
il dinamismo della macchina tende ancor più a rendere
tale. L'arte è lo strumento di formalizzazione di tale
visione del mondo, la capacità di fissare il campo visivo.
Il movimento futurista, in uno sguardo retrospettivo, è
stato più equilibrato di quanto non sembri a prima vista
o leggendo le cronache dell'epoca. Infatti le opere e i manifesti
teorici ci consegnano l'identità di un gruppo artistico
che coniuga apologia internazionalista della macchina con recupero
della radice mediterranea. In ogni caso quello che marca anche
la prima generazione futurista è l'adesione al principio
dell'arte come ricerca capace di assumere "l'oggettività"
dell'esperienza scientifica. Balla opera con un impeto interdisciplinare
che lo porta verso soluzioni linguistiche che corrispondono sempre
ad una visione filosofica dell'esperienza creativa e della vita
in sé. Una sorta di sguardo fenomenologico regge la mano
dell'artista che non compie alcun processo di proiezione o di
identificazione affettiva verso i materiali recuperati per la
composizione dell'opera: essa è il frutto di un'operazione
di stanziamento direttamente proporzionale a quella di estraniamento
che accompagna l'assunzione di elementi extra-artistici. Si può
dire che non esista complicità tra Balla e la materia,
nel processo di sublimazione di pulsioni oscure. Uno strumento
di distanziamento adoperato è la sottile ironia, intesa
proprio come passione filosofica che si libera nel distacco,
che attraversa l'opera e si pone come sguardo che affronta il
mondo mediante un'ottica a campo totale.
Nel caso di Balla il campo è dato da una sorta di distanziamento
o vista dall'alto della composizione che ci restituisce la mappa
totale dell'immagine e nello stesso tempo ci impedisce una interrogazione
ravvicinata. L'arte diventa una sorta di conoscenza delle grandi
distanze, intese come impossibilità di sfondare il mistero
delle cose e come possibilità di trovare l'ottica, il
cannocchiale giusto, per inquadrare l'essenza della superfìcie
delle cose stesse. Una sorta di ottica aerea assiste l'opera
di Balla che tende così ad evidenziare il processo di
approccio alla conoscenza, a sfidare la strutturale impersonalità
della ricerca scientifica mediante la fondazione di un oggetto
linguistico autonomo rispetto al suo autore, capace di darsi
nella sana estraneità che accompagna il rapporto di analisi
dello scienziato con il suo campo investigativo. Una luce mentale
illumina letteralmente l'opera di Balla, disegno o pittura.
Tale luce non esprime fremiti mistici o metafisici, semmai tende
a sottolineare i caratteri strutturali del fenomeno della conoscenza
che sono, nel campo dell'arte, l'indeterminazione e la bellezza,
conseguente all'impossibilità di una semplice conoscenza
statistica.
Nell'opera di Balla circola sempre un'aura, una oggettività
estraniante che forma una sorta di intercapedine tra sguardo
dello spettatore e manufatto artistico. Il materiale extra-artistico,
ripreso cioè dalla dimensione vita, interagisce con la
materia della pittura, perimetro depurante della dimensione arte,
attraverso un corto circuito che assorbe in un'unica dimensione
la diversità.
Questa dimensione è quella del galleggiamento, una sospensione
frontale schiacciata dall'alto dell'immagine che presenta in
tal modo le sue componenti dichiarate nella loro sovrapposizione
di piani. Gli organismi formali di Balla infatti si danno sempre
come geografie cosmiche, carte geografiche per lo sguardo che
indietreggiando può assumere una visione totale, e per
questo filosofica delle cose. Le cose ovviamente sono la cosa,
la materia costitutiva di tutte le materie, che sprona l'artista
ad applicarsi con gli strumenti che gli sono propri e che non
gli impediscono una sfida conoscitiva capace di sottrarsi al
pathos della soggettività e della declinazione sentimentale.
Infatti nell'opera non c'è mai caduta lirica, intesa come
afflato puramente emotivo, semmai una tensione verso un respiro
cosmico in cui sono i livelli geologici dell'immagine a produrre
profondità e larghezza. La profondità è
l'effetto di una concezione filosofica che trova le proprie radici
nel pensiero teosofico che permea tutta la produzione teorica
ed in parte artistica del futurismo di Balla.
Centrale nel suo lavoro è la convergenza di tutti gli
strati della cultura ed anche di tutti i linguaggi possibili,
in un movimento verso la totalità espressiva che coniuga
insieme arcaismo e modernità, materia e tecnica, in una
tensione che talvolta sfiora accenti wagneriani come nel caso
di "Feu d'artifice" di Strawinskij. Arcaica la stratificazione
delle forme, moderna la concezione della consonanza tra la ricerca
artistica e quella scientifica. La visione di superfìcie,
che regge l'opera di Balla dalle "Compenetrazioni iridescenti"
del 1912 in avanti, è l'effetto di una concezione sperimentale
dell'arte, della conquista di un'idea spaziale che non affonda
nell'illusione del trompe l'oeil ma piuttosto si espande appunto
sulla superficie e magari conquista una terza ed una quarta dimensione
corrispondente alle concezioni più avanzate della scienza
moderna.
Succede allora che i dati antropomorfici non si espandano in
un liquido spaziale secondo una sconnessione ritmica che anticipa
paradossalmente i movimenti charlottiani, in cui abiti e forme
ambientali sembrano inseguire afasie e squilibri spaziali che
tutto sommato creano un equilibrio instabile, una sorta di classicità
formale di uno squilibrio ed una instabilità legati alla
condizione dell'uomo moderno. Tutto si tiene nell'opera di Balla
in quanto esiste, sotto i livelli della forma, una concezione
unificante capace di tenere insieme una costellazione di elementi,
un intreccio di segni e materie che galleggiano nella naturale
instabilità dinamica dello spazio e del tempo, all'incrocio
di queste due dimensioni che sono le coordinate di ogni movimento.
Stasi e movimento, disegno e spessore si alternano in ogni composizione,
tutta calata in uno spazio circolare, come la volta celeste,
in cui i corpi sembrano essere soggetti ad un moto perpetuo ed
inarrestabile, lento fino al punto di permettere la percezione
di ogni dato particolare.
Vicino e lontano, intero e dettaglio si intrecciano nell'ottica
del quadro che si presenta come un universo oggettivamente presente
sotto lo sguardo-cannocchiale dello spettatore.
I caratteri di oggettività e di presenza concreta sono
riaffermati mediante l'assunzione di un ulteriore carattere appartenente
non alle arti figurative ma al teatro, all'evento. La cornice
dipinta diventa una sorta di palcoscenico che delimita l'accadimento,
l'immagine si avvera nella sua oggettiva estraneità di
materia e di forma alla contemplazione del pubblico.
Questo si trova in tal modo di fronte a una forma carica di dinamismo
e di rallentato plasticismo nello stesso tempo. Balla mette lo
spettatore in condizione di guardare da un osservatorio privilegiato,
quello della forma, da cui è possibile risalire a un'idea
totale oggettivamente filosofica delle cose. Tale dimensione
presuppone insieme il peso concreto della materia e l'astrazione
mentale, l'essenza del numero e l'evoluzione biologica della
materia, la crescita e l'arresto, il volume e il puro colore.
Quello che da titolo ad una sua composizione : "I numeri
innamorati".
Comunque tutto si muove in circolo secondo linee di scorrimento
che avvolgono la composizione e la rendono campo di un sistema
di relazioni mobili secondo le regole di un eterno motore che
sembra perdere gli ardori macchinistici tipici della predica
futurista ed acquistare invece la cadenza pacata di una visione
filosofica che travalica anche la modernità. Arriviamo
così all'astrazione di forme non rinvianti più
all'iconografia cinetica del futurismo ma ad una sorta di universo
neoplatonico, dove le forme pure nella loro concreta astrattezza
si fronteggiano nella perfezione di un'immobilità comprendente
ogni possibile movimento, essenza dell'arte che trasfigura ogni
dettaglio in dato universale.
Dopo Balla, negli anni Trenta e Quaranta nell'arte italiana non
abbiamo quasi mai forme geometriche ma figure che costituiscono
il figurabile della nostra epoca abitata dalla tecnologia che
sembra comportare smaterializzazione ed astrazione dei corpi,
come si evince per esempio dall'opera di Fausto Melotti. Eppure
l'arte rende evidenti le forme, da corpo anche alla geometria.
Infatti le forme, bidimensionali o tridimensionali, sono sempre
concrete realtà linguistiche, affermazioni di un ordine
mentale mai repressivo e chiuso ma fertile ed imprevedibile.
In ogni caso le forme germinano e si moltipllcano con improvvise
angolazioni che dispiegano le potenzialità di un nuovo
erotismo di geometria mediterranea, legata alla linea curva.
Queste sono forme di una monumentalità domestica, che
non allude alla prepotenza della città moderna o alla
retorica della scultura. Non si vuol produrre una convenzionale
guerra alle forme esistenti nella realtà, semmai realizzare
un campo linguistico di analisi e di sintesi. L'analisi è
prodotta dalle possibilità di verifica sulla germinazione
di queste famiglie di forme e la sintesi dalla forza delicata
dell'insieme che si dispiega sotto i nostri occhi, alcune volte
anche Iudicamente, come avviene con l'opera di Bruno Munari.
Alla fine degli anni Quaranta e all'inizio degli anni Cinquanta
gli artisti in Italia fronteggiano i risultati di tre linee artistiche
diverse ma parallele, rappresentate da Burri, Fontana e Capogrossi
che hanno assunto, quale loro punto di partenza, il concetto
di arte (materia, gesto e segno) come atto di convergenza totale
tra l'opera e la vita.
L'opera d'arte è il luogo in cui l'artista si accampa,
fuggendo, la natura precaria della vita. Se per Burri il problema
è di sintetizzare lo spazio dentro un quadro, il fulcro
oscuro dell'esistenza, il flusso traumatico del tempo, forza
originaria della materia (iuta, ferro, legno, plastica), se Capogrossi
traccia sulla superficie del quadro un segno arcaico e costante,
cifra lampante di un linguaggio capace di rappresentare nell'istante
dell'immagine una temporalità stratificata: simbolo e
decorazione, sostanza e forma, il problema di Fontana è
invece di affrontare le dimensioni dello spazio e del tempo e
di ridurle a segno unico. Sulla tela rimane la cicatrice, la
traccia simbolica dell'intervento dell'artista che riflette l'esperienza
immediata dello spazio reale.
Tuttavia, tutti e tre considerano l'opera d'arte come estensione
della propria esistenza che si afferma nel movimento verticale
della creazione. In questo modo, un cordone ombelicale lega sia
l'opera all'artista sia lo spazio appiattito e orizzontale del
mondo quotidiano. Ne deriva, in una visione assoluta dell'arte,
la speranza di allontanarsi dalla banalità tragica della
vita per via di un atto, la creazione artistica, che glorifica
la soggettività.
Il linguaggio adoperato da Fontana è il frutto di una
mentalità che tende a confrontare il gesto produttivo
dell'artista con la modularità della produzione industriale.
Da qui la sua essenzialità e la riduzione del processo
creativo alla limpidezza di un gesto controllabile e ripetibile.
Slancio vitale e precisione chirurgica sostengono la strategia
creativa di Fontana che imprime forma alla materia o la smaterializza
precocemente nella dimensione installativa. Lucio Fontana nasce
in Argentina da padre italiano e poi si educa in Italia con le
scuole che frequenta a Milano. Egli è figlio di una doppia
cultura: storico-europea italiana e una geografìco-antropologica
quella sudamericana. Questa doppia radice gli da la possibilità
di sviluppare una sensibilità molto complessa. Della radice
italiana egli riprende la memoria culturale, principalmente legata
al Barocco e al suo inevitabile sbocco futurista: esplosione
delle forme nello spazio, momento di passaggio dell'arte ad una
sensibilità moderna e possibilità di portare la
pittura e la scultura fuori dalla cornice, nello spazio della
realtà, seguendo una pulsione intrisa di progettualità.
In Fontana si crea un corto circuito tra le due culture da cui
proviene. Da una parte, il bisogno della coerenza tutta europea
di sviluppare una linea che dal Barocco al Futurismo arriva fino
all'epoca in cui egli lavora, e dall'altra la ripresa di un atteggiamento
tipico degli artisti provenienti da paesi coloniali, ovvero,
l'eclettismo. L'eclettismo è l'attitudine alla mescolanza,
all'intreccio, alla contaminazione che spesso nasce dalla mancanza
di una radice propria. E' quindi l'impossibilità di riconoscersi,
di identificarsi con una linea culturale puramente evolutiva,
legata ad una linearità di sviluppo. Invece il colonialismo
agisce per sovrapposizioni tra diverse memorie culturali.
Fontana da giovane comincia a relazionarsi anche con le arti
minori attraverso la ceramica, realizzando sculture legate proprio
all'esplosione delle forme nello spazio tipiche del Barocco.
La conseguenza è un'apertura verso l'astrattismo ed il
superamento di ogni staticità figurativa. L'astrattismo
di Fontana è legato alla geometria, al bisogno dinamico
di un ordine e di una costruzione, in quanto egli vuole ordinare
la sensibilità tropicale della "Pampas" dentro
un linguaggio che abbia il senso della costruzione dell'arte
europea.
La costruzione del linguaggio di Fontana è legata a tutta
la cultura contemporanea: costruire significa elaborare forme
in sintonia con la società e la civiltà del proprio
tempo. Un modello prodotto dalle avanguardie storiche, da cui
riprende il concetto fondamentale, l'idea sperimentale di un'arte
legata all'evoluzione del mezzo e della forma.
Per questo egli trova nel Futurismo il massimo dell'ispirazione.
Esattamente nel "Manifesto della Scultura" firmato
da Boccioni, in cui l'artista futurista dichiara di voler esprimere
i concetti di dinamismo ed energia, e realizzare mediante l'arte
tridimensionale della scultura, il paradosso di rappresentare
il movimento attraverso una forma statica, con materiali che
vanno dal metallo al marmo, ed altri quotidiani, poveri, elementari
quali il legno, il vetro, lo spago, che di per sé non
appartengono alla tradizione dell'arte. Nello stesso tempo Fontana
attraverso la pittura, si pone lo stesso problema della scultura
: come sfondare il muro dello spazio per arrivare a toccare il
tempo. Così egli passa dalle forme legate al Barocco degli
anni Trenta, a quelle legate all'astrattismo degli anni Quaranta,
ai tagli e ai buchi che connotano ormai la sua classicità.
Arriva a questo risultato proprio creando un collegamento tra
il bisogno di esplosione delle forme nello spazio del Barocco
e dall'altro utilizzando la precisione che gli deriva dall'astrattismo
geometrico per compiere il taglio fisico della tela, da chirurgo,
netto, lineare, senza esitazione, così come lo sono il
gesto del buco: uno in verticale e l'altro in profondità.
Il gesto del taglio e della penetrazione non hanno nulla a che
fare con l'erotismo
dell'action painting, della gestualità pittorica che si
sviluppa in America e in Europa in quegli anni, legata strettamente
all'automatismo psichico del Surrealismo.
Mentre il gesto di Fontana è modulare, naturalmente supportato
da un'energia quasi artigianale ma legato ad un percorso in verticale
e in profondità costante, il bisogno del taglio e della
penetrazione nella materia ha naturalmente anche una relazione
con l'inconscio, con il bisogno di penetrare una materia chiusa
e sconosciuta, ma complementare. L'approdo finale è infatti
quello di una forma estremamente oggettiva che vuole suggerire
anche un procedimento mentale, tanto più che Fontana dirà
che il taglio e il buco sono atti mentali.
E' chiaro che l'atto mentale ha bisogno della materia per concretizzarsi,
per non essere un gesto fantasmatico che Fontana vuole realizzare,
per passare a un rapporto fisico, concreto con la realtà.
Ecco che allora la superficie della pittura e la materia della
scultura diventano come dei muri da sfondare per creare una possibilità
di continuità tra spazio esterno dove sta lo spettatore
e spazio interno dietro lo spettatore.
Ci troviamo così di fronte ad un artista che riesce a
coniugare spazio e tempo attraverso la pratica della pittura
e della scultura. Essendo pittura e scultura un atto mentale,
le opere sono realizzate in maniera quasi moltiplicata. In questo
senso Fontana non è un artista ripetitivo, non copia dal
gesto precedente quello successivo ma compie appunto un atto
mentale, legato alla concentrazione e dunque alla irripetibilità
del momento.
Sviluppando questa ricerca, arriva a realizzare nel 1949 il primo
"Environment", uno spazio-ambiente a Milano. Ne realizzerà
un'altro nel 1951 per la Triennale di Milano "Via via altri"
e l'ultimo nel 1968 a Kassel per Documenta.
La grande novità è che non esiste finalmente un
centro dell'opera ma una disseminazione di punti di osservazione
legati agli spostamenti fisici dello spettatore. In questo senso
egli fa la massima coniugazione tra il Barocco, il Futurismo
e la sensibilità delle esperienze del dopoguerra, per
approdare dunque ad una produzione di arte totale che le avanguardie
storielle avevano già teorizzato. E nello stesso tempo
rappresenta una felice conclusione della profetica ricostruzione
futurista dell'universo avanzata anche da Balla: dimostrazione
di come Fontana è un grande artista sperimentale ma anche
esperenziale, che sembra ricordare Leonardo da Vinci.
Egli coniuga insieme scultura e pittura: una superficie dipinta
con un disegno che diventa un campo di delimitazione con lo sfondamento
al centro. Non c'è il piacere della materia ma il progetto
del suo sfondamento. E siamo al passaggio dal taglio al buco:
lo sfondare la superficie con un chiodo determina una sorta di
disseminazione di luoghi di attraversamento dello spazio. La
forma ovulare e circolare dello spazio indica come egli voglia
sempre individuare un campo magnetico. Anche quando Fontana sovrappone
delle forme sulla tela sono di commento del gesto di sfondamento
della stessa. Prosecuzione di una strategia progettuale che volutamente
impoverisce la tecnica di intervento per esaltare la serialità
del risultato formale. In alcuni casi il taglio non è
centrale ma laterale proprio perché egli non predilige
il centro, sapendo che questo è sintomo di staticità
e crede invece alla mobilità della materia. L'uso di colori
non è drammatico perché lo sfondamento non è
violento, è semplicemente lavorare per l'arte, approdare
a nuove dimensioni. Colori tenui, anche il rosa, degli azzurri,
colori che non sono mai violenti. Quando il colore è forte
come il rosso, allora viene attenuato da alcuni elementi bianchi
o gialli. Viceversa quando il taglio è centrale è
proprio perché egli vuole riaffermare la concettualità
del gesto, conservando una sorta di coazione alla circolarltà
sempre legata in qualche modo all'iconografia del buco. L'artista
privilegia spesso non solo l'interno ma anche l'esterno delle
forme ovulari e circolari, che assicurano l'idea della percorribilità
e del ritorno della forma.
Nella sua volontà totalizzante egli è assertore
di una mentalità tutta italiana che si evolve da Leonardo
a Balla e trova la propria costante nella ricerca di un valore,
quello dell'equilibrio tra i rigori della tecnica e dell'armonia.
Comunque negli artisti europei ed italiani del secondo dopoguerra,
emerge un concetto di sana utopia negativa, intesa come coscienza
dell'impossibilità dell'arte di fondare un ordine fuori
del proprio recinto. In qualche modo prevale l'etica del fare
sulla politica del creare, un'etica che in ogni caso individua
un processo di messa a fuoco del procedimento ideativo ed esecutivo
dell'arte.
Scarpitta lavora non sul segno e sul colore ma sull'evidenziamento
dello spazio, esibendo vere e proprie "fasce d'energia"
spaziali sulla lunghezza d'onda che va inizialmente dal Futurismo
a Burri. La superficie si ingobbisce, si estroverte e acquista
una tridimensionalità che allude fisicamente allo spazio
aggrovigliato della realtà. Il materiale appartiene al
piano dell'esistente e del vissuto, ma sottoposto al rigore di
una tensione formale che sconfigge l'inerzia della materia e
ne trasferisce l'accidente nella oggettività di una forma
tesa e lampante. Successivamente trasferitosi in America amplifica
il trend verso l'oggettivazione e costruisce macchine ironicamente
celibi, frutto di un sistema combinatorio che riduce la cifra
soggettiva dell'artefice.
Accardi regola lo spazio pittorico dentro un regime bidimensionale
di segni, in cui instaura una relazione mobile di intreccio.
L'ambiguità della visione è data dal ritmo organico
dei segni che seguono un doppio movimento. Attraverso il primo,
una sorta di matrice genera il segno che possiede una struttura
di fondo che lo ripete. Attraverso il secondo, il segno prolifera
e si modifica secondo una dinamica organica che rinvia al ritmo
di crescita progressiva della natura. Il sistema segnico è
retto da una struttura che gioca sull'alternanza dei motivi e
su un ordine spaziale in cui pieno e vuoto si pareggiano. Anche
la trasparenza interviene con i suoi materiali plastici a smaterializzare
la pittura e ad accentuarne il ritmo mentale.
Altri artisti più giovani alla fine degli anni Cinquanta
e nei primi anni Sessanta hanno confermato il concetto dell'arte
come attività specifica e autonoma. Per Castellani, Manzoni,
Agnetti, Lo Savio e Paolini l'esperienza creativa è un'espressione
che ha bisogno di tecniche specifiche e di una chiarezza di azione
che controllano lo sviluppo dell'opera, ora considerata come
una realtà in sé staccata dallo scopo soggettivo
del suo creatore. Contro "l'eteronomia" dell'arte,
questi artisti sostengono la sua autonomia; in opposizione al
concetto di arte come avventura liberante e non controllata,
impongono una coscienza politica del proprio ruolo, che li porta
a vivere professionalmente la propria ricerca.
Questi artisti spezzano il cordone ombelicale con l'opera e adottano
un cinismo attivo che permette il controllo della loro attività
e l'analisi del linguaggio. Essi non credono più al valore
assoluto dell'arte ma in una valore relativo che nasce solo dalla
coscienza "metalinguistica" dell'arte come mezzo d'espressione.
Questo nuovo atteggiamento può derivare soltanto da una
riduzione dell'arte a zero, alle proprie regole fondamentali,
riduzione che permette una ricerca come affermazione di tautologia
linguistica. L'arte viene separata dal proprio indeterminismo
e immessa all'interno di aree conoscitive più controllate
e verificabili. Questo nuovo atteggiamento analitico (che pertanto
trova nel gesto come misura di sé e dello spazio dell'arte
di Fontana più di una ispirazione) determina un salto
qualitativo anche politico, nel senso che l'artista non vuole
più confondere arte e vita, risolvere le antinomie della
storia mediante l'arte, può solo operare un approfondimento
e un salto in avanti nella ricerca. Alla realtà parziale
del quotidiano l'artista degli anni Sessanta risponde con la
totalità relativa dell'opera, che ha ormai perduto tutte
le proprie allusioni ai traumi dell'esistenza e ha invece acquistato
un suo splendente superficialismo. Il superficialismo è
coscienza del carattere ambiguamente bidimensionale del linguaggio,
della sua qualità di essere oggetto e soggetto della creazione.
Ora l'opera d'arte non esprime l'urgenza di spingersi verso la
vita, ma piuttosto quella di analizzare la distanza che vi intercorre
e la peculiarità del linguaggio artistico rispetto a quello
della comunicazione quotidiana. L'artista si considera come colui
che esercita una professione specializzata con un oggetto ben
individuato, il linguaggio: il linguaggio preesiste all'opera
e il suo luogo è la storia dell'arte. Ma l'artista, inserito
nella storia e sottoposto ai suoi contraccolpi, sente la precarietà
dell'esistenza fino alla coscienza lucida dell'impossibilità
di riscattarla attraverso l'immaginario. L'immaginario risponde
ad alcune regole esatte che sono poi quelle del linguaggio, esso
è sempre fondato dentro la realtà, ma perché
si formuli nell'opera è necessario un procedimento rigorosamente
analitico che scinda il disordine della vita e l'ordine dell'arte.
Il procedimento analitico di Castellani, Colombo, Dadamaino,
Mauri, Nigro, Uncini, Manzoni, Agnetti, in un certo senso Schifano,
Lo Savio e Paolini non poggia su convenzioni precedenti, cerca
di fondare un proprio metodo di verifica, contestuale all'opera,
in maniera che niente esista prima o dopo di essa. Viene così
a scadere quel margine di atteggiamento metafisico che rimaneva
nell'arte informale, per cui l'opera è la continuazione
della vita e la vita il prima e il poi dell'opera.
"Il solo criterio compositivo possibile nelle nostre opere
sarà quello non implicante una scelta di elementi eterogenei
e finiti, che posti in uno spazio finito istantaneamente determinano
l'elaborato al punto da togliere irrimediabilmente la possibilità
di qualsiasi ulteriore sviluppo che non sia sul piano prettamente
grafico o solo metaforicamente spirituale dell'evoluzione delle
forme nello stesso limitato spazio, scelta che di altro non
testimonia se non della vanità di chi per averla fatta
se ne compiace; ma il solo che attraverso il possesso di un'entità
elementare, linea, ritmo indefinitamente ripetibile, superficie
monocroma sia necessario per dare alle opere stesse concretezza
di infinito, e possa subire la coniugazione del tempo, sola dimensione
concepibile, metro e giustificazione della nostra esigenza spirituale"
(Enrico Castellani)
Castellani ha operato nell'ambito della ricerca modulare per
investigare la nozione di spazio. L'opera si configura come superficie
incolore, che contiene l'elemento spaziale, come estensione bidimensionale,
e l'elemento temporale come modificazione ritmica della superficie
stessa, nel senso della profondità. Superficie e scansione
sono le due polarità che coniugano l'opera e la definiscono
in termini di misura e di esperienza come avviene anche negli
"Schermi" di Mauri che nella loro nuda oggettualità
evidenziano la sostanza tautologica.
Gli "Achromes" di Manzoni sono superfici prevalentemente
bianche formate con diversi materiali che organizzano una porzione
di spazio rinviante soltanto a se stesso. Una concezione metonimica
presiede l'opera, sostituendo la visione metaforica che è
alla base dell'arte degli anni Cinquanta: la materia e il taglio
erano pur sempre metafore delle forze originarie della natura
e tracce dello spazio reale. Gli "Achromes" sono solo
ciò che si vede, una fenomenologia particolare dello spazio
ridotto a evento visivo e concreto. Il quadro è il portato
di un procedimento in cui tutti gli elementi sono sotto il controllo
emotivo dell'artista che da all'opera una sua identità
separata e autonoma. Sono eventi concreti che presentano immagini
diversificate dello spazio pittorico, spazio volutamente incolore
che non contiene tracce do soggettività. Con queste opere
e le successive carte d'identità, Manzoni ha anticipato
temi riguardanti la pittura e l'arte del comportamento. Se gli
"Achromes" consistono nell'azzerare la pittura come
espressione, le opere realizzate al di fuori del campo della
pittura, intendono fronteggiare l'arte e la vita, per farne un'esperienza
non metaforica e formale ma autentica e reale.
Agnetti ha operato contro il carattere specifico dei vari linguaggi,
facendone un uso intercambiabile: il linguaggio matematico, formulato
attraverso la presenza visiva dei numeri, sostituisce il linguaggio
letterario. Ne consegue un iniziale azzeramento e una successiva
amplificazione, che trova significato nel suo carattere universale
quale mezzo di comunicazione. Naturalmente la comunicazione s'avvera
mediante l'oggettività di un linguaggio che cerca i propri
referenti nella scienza e nella filosofia, nella citazione astronomica
e nella formula algebrica.
Lo Savio ha anticipato la ricerca primaria condotta dalla Minimal
Art, con un'analisi degli elementi strutturali su cui poggia
la nozione di pittura e scultura : la luce e lo spazio. I "Filtri"
e i "Metalli" evidenziano tale analisi, mediante una
rappresentazione essenziale e fenomenica della luce e dello spazio
come evento concreto. La luce non viene rappresentata nei ritmi
geometrici di Balla, piuttosto evidenziata e resa volumetrica
per un assetto formale che la inquadra e la inscatola concretamente.
Paolini ha perseguito un'analisi dell'arte come sistema autonomo
e autoreferenziale. La sua ricerca si muove nei labirinti del
linguaggio dell'arte e della sua storia lungo un percorso che
si snoda entro i confini del suo dominio. Artifìcio e
specularità sono le qualità della rappresentazione:
artifìcio come differenza e specularità come movimento
interlocutore del linguaggio all'interno del codice dell'arte.
Tale analisi non trova il suo sbocco in una semplificazione formale
ma esalta un particolare carattere del processo conoscitivo mediante
l'allusione al doppio e al labirinto.
Se da una parte questi artisti hanno introdotto nell'arte negli
anni Sessanta la necessità del procedimento analitico,
dall'altra Ceroli, Schifano, Festa, Pascali e Kounellis si sono
mossi per procedimento sintetico. Ceroli ha laboriosamente adoperato
il legno, come materiale compositivo dell'opera, astratta o figurativa.
Con rigore formale egli ha costruito spazi e volumi partendo
da un materiale legato alla natura. In un'epoca di riproduzione
meccanica dell'immagine, egli ha realizzato un paesaggio di sagome,
un metafisico standard figurativo, con un intreccio puntuale
ed equilibrato tra la fredda temperatura del concetto e quella
calda della memoria : sequenze di natura-naturata nelle forme
dell'arte.
Schifano con i suoi "Monocromi" azzera lo spazio pittorico,
iscrivendovi letteralmente il suo carattere superficialista,
con colori squillanti ed aggressivi, recupero dell'iconografia
urbana, memoria d'archivio futurista e prodotta dai mezzi di
comunicazione di massa. Accanto a tali opere egli successivamente
recupera anche dettagli di paesaggi naturali ed altri come "Incidenti
d'auto" dove sembra evidente il precoce riferimento alla
figurabilità ritmica di Balla. Anche qui il colore trova
una sua accentuazione cromatica nei timbri squillanti e artefatti.
L'immagine è il prodotto di una velocità esecutiva
che rimanda a un idea del tempo di tipo futurista, in cui accelerazione
del procedimento e rallentamento della forma si attraversano
incessantemente.
Festa opera nella direzione di una neo-metafisica capace di affermare
il carattere di una cultura che conserva le sue radici seppure
subisce l'impatto con la società del consumo dove il mito
diventa immagine riprodotta e riproducibile. La sua pittura conserva
un'aura letteraria e la memoria umanistica di un valore, quello
dell'arte. Da qui la calibrata immobilità dell'immagine,
l'oggettiva formulazione della figura che diventa il portato
di un'apparizione particolare e il risultato di una cultura "universale",
su cui aleggia l'ombra protettiva e metafisica di De Chirico
col suo inquietante senso della misura.
Pascali ha sviluppato progressivamente un lavoro fra pittura
e scultura, una sorta di oggettistica finale in cui emerge un
equilibrio tra la limpidezza della forma e la profondità
degli elementi. "32m2 di mare" rappresenta l'esito
felice sul versante mediterraneo di una linea capace di coniugare
la ripetizione della struttura portante e il movimento liquido
dell'acqua. In questo caso l'aura "Minimalia" dell'opera
riesce a proteggere la profondità complessa del tema proprio
attraverso il rigore di un metodo ripetitivo.
I procedimenti analitico e sintetico sono alla base dello sviluppo
dell'arte alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta
nei suoi caratteri processuali, concettuali e comportamentali.
Il carattere concettuale nasce dalla volontà di spostare
le mire dell'arte dai suoi tradizionali oggetti e materiali.
Fino agli anni Sessanta l'arte ci aveva abituato a oggetti e
forme concrete. L'arte concettuale, invece, si pone come scopo
la ricerca della propria nozione e del proprio significato. L'opera
d'arte consiste nell'analizzare e nell'investigare il linguaggio
artistico specifico e il sistema che lo accoglie. Così
si arriva ad un'arte smaterializzata, che non impiega più
forme e materiali durevoli. I materiali possono essere fogli
di carta, discorsi verbali sull'arte, riflessioni filosofìche
sul sistema artistico: l'arte passa da un metodo di intuizione
a un metodo di analisi, proprio dell'attività scientifica
e filosofìca. Se l'arte precedente si fondava sull'ambiguità
intenzionale del significato, l'arte concettuale assume i dati
della scienza e il bisogno dell'esattezza e del significato univoco.
Sia che si punti sul processo, sul concetto o sul comportamento,
l'arte italiana degli anni Sessanta sempre si pone fuori dalla
nozione di poetica, intesa come fedeltà ossessiva a uno
stesso materiale o a una immagine costante. La poetica è
la cifra che funziona come griffe, marchio di riconoscimento,
il dato che assegna l'appartenenza dell'opera al suo artefice,
che nasce sempre da un bisogno di coerenza e fedeltà dell'artista
con se stesso. In questi anni questi sfugge la paralizzante nozione,
puntando su una programmatica infedeltà che gli consente
di realizzare opere apparentemente contraddittorie.
L'artista si pone così in sincronia con la fìtta
rete di accadimenti della realtà, che si formano e si
evolvono sotto il segno della contraddizione. Contraddizione
che ormai egli tende a inglobare sistematicamente nel proprio
lavoro.
Pistoletto è intenzionalmente passato attraverso varie
fasi di lavoro, con opere che ribaltano e spiazzano tutta la
prima fase della sua ricerca sugli specchi.
Attraverso i suoi specchi ha insinuato un enigmatico trompe l'oeil
di arte e vita. Le sue "Lamiere speculari" contengono
immagini sovrapposte di oggetti quotidiani o figure di persone
fissate in un gesto. Lo spettatore, posto di fronte all'opera
si rispecchia e quindi assume una doppia posizione, di oggetto
riflesso e soggetto mirante. Il tempo è l'elemento che
scandisce l'efficacia dell'opera. A questo lavoro sullo specchio
Pistolotto si è sottratto con uno scarto laterale, quel
passo del torero che egli stesso ha teorizzato in un libretto
del 1967: "le ultime parole famose". Da qui egli è
ripartito per riconfermare un sistema linguistico in cui il concetto
prevale sull'oggetto.
Nell'ambito processuale hanno operato artisti come Anselmo, Fabro,
Boetti.
Anselmo con il suo lavoro intende irretire le relazioni spaziali
e temporali di categorie astratte del pensiero, come i termini,
"tutto", "particolare" e "infinito".
Il particolare viene segnalato come un'area luminosa, prodotta
da un proiettore sulla parete o sul pavimento della galleria,
resa come spazio totale. Così il termine linguistico viene
ad identificarsi con la sua determinazione fisica, nella sua
presenza spaziale e temporale.
Fabro opera su un'arte come evento di conoscenza, in cui l'esibizione
materiale dell'oggetto diventa sollecitazione a nuove formulazioni
del pensiero. L'uso di materiali impropri e il loro accostamento
stridente provocano trame inedite, che interdicono una lettura
in termini di passiva normalità. All'apparente tautologia
linguistica si contrappone un'effettiva contraddizione mentale
: uno spiazzamento dell'immagine, che lega l'arte come pratica
ideologica.
Boetti propone un'attenzione differente e un sistema di relazioni
ambivalenti nell'ambito di date esperienze che preesistono al
suo intervento. L'arte diventa un linguaggio carico di virtualità,
rispetto all'assopimento e alla rigidità degli altri linguaggi,
l'attitudine di un'intelligenza che lascia affiorare l'alveo
nascosto delle cose, qualità intrinseche percepibili all'atto
creativo.
Nell'ambito concettuale operano Lombardo, e oltre ad Agnetti,
artisti come Prini e Isgrò. Mentre l'analisi di Lombardo
ha come oggetto il codice gestuale che diventa performativo attraverso
il sistema mediatico, quello di Prini verte sullo standard, quale
unità di misura e modulo preesistente all'intervento dell'artista.
Egli assume nella sua investigazione elementi codificati nella
loro forma dall'uso e li trasferisce nel contesto dell'arte,
dove il materiale non subisce cambiamenti ma viene impiegato
come modello di informazione. Isgrò concettualizza l'esperienza
della poesia visiva introducendo una investigazione sull'interstizio
che resta tra parola e immagine nell'intreccio compositivo.
In un campo trasversalmente comportamentale si situa l'opera
di artisti come Kounellis, Pisani e Salvo.
Kounellis lavora su un recupero poetico del mito, sull'uso degli
elementi primari come il fuoco e dei linguaggi originari, come
la danza e la musica. Trasferisce i procedimenti della pittura
nella fisicità di uno spazio reale, che acquista la composta
fissità del quadro. Le sue performances ed installazioni
tendono a sottolineare l'impiego diverso della sensibilità,
intesa come capacità di percepire il mondo al duplice
livello di natura e cultura. Tale duplicità trova la propria
rappresentazione in un immagine ispirata da una forte classicità
di intense ma rigorose forme, impregnate da un evidente metodo
socratico. L'arte diventa il luogo visibile che formalizza in
maniera esemplare i conflitti della storia, e li risolve nella
catarsi dell'avvenimento creativo.
Pisani ha sempre operato attraverso il procedimento della citazione,
rivolta verso i materiali della cultura piuttosto che verso quelli
della natura. Il suo è un lavoro di analisi critica e
sistematica dell'opera di Duchamp e delle categorie culturali
in essa contenute: l'alchimia, l'incesto, il cannibalismo, il
maschile e femminile, l'androgino, fino all'analisi comparata
con la "Gioconda" di Leonardo. Altri temi critici,
la figura artistica di Beuys, come eroe e demiurgo, e quella
di Edipo. L'arte diventa strumento di misura della cultura e
della storia, capace di condensare nelle proprie forme temi di
eterno ricorso legati agli enigmi della vita e della morte.
Il lavoro di Salvo consiste in una celebrazione della propria
figura di artista. Inscrive il proprio nome o la propria immagine
in contesti di situazioni o di opere d'arte del passato che lo
fondano come presenza mitica ed estraniata. Il lavoro artistico
diventa il supporto su cui erigere il proprio monumento che trova
la sua massima espansione narcisistica nell'autoritratto, ampliata
dal giuoco dei ruoli e delle situazioni, realizzata con tecniche
e materiali differenziati: dalla lapide di marmo alla pittura.
In ambito decisamente post-concettuale operano Mochetti, Spalletti,
Bagnoli, Salvadori e Piacentino.
Piacentino accetta l'idea dell'arte come rigoroso redesign delle
forme, allestendo oggetti tridimensionali, presentati in maniera
fortemente lontana sul piano estetico dai colori tradizionali
che accompagnano la pittura e la scultura. Egli desume lo splendore
cromatico della sua oggettistica dal regesto meccanico dell'universo
tecnologico. Di queste Piacentino ne evidenzia la geometria metafisica.
L'opera di Bagnoli è un'investigazione sulla qualità
fisica e mentale dello spazio e del tempo, nelle loro virtualità
e dialettica aperta della moltiplicazione "spazio per tempo";
un'analisi del concetto di limite, dell'interstizio come luogo
germinale delle differenze e delle opposizioni. Viene infranto
il principio di centralità a favore di relazioni oblique
e mobili.
Salvadori svolge un'indagine principalmente sul tema dello sdoppiamento
dell'unità e come compresenza di due polarità opposte:
ad esempio, l'elemento maschile e femminile, il dritto e il rovescio.
La linea è il diaframma che separa e differenzia l'identità
e la somiglianza, e può essere accostata a quel luogo
mediano nel generare le due facce della simmetria, situandole
su due piani opposti e inconciliabili.
Nella metà degli anni Settanta l'arte ribalta la pura
presentazione grammaticale dei materiali elementari, in un'atteggiamento
più sapientemente colto. Infatti prevale una tensione
verso la rappresentazione, che riporta il riferimento alla natura
nell'ambito della citazione, un recupero culturalizzato e filtrato
dalla memoria storica dei linguaggi dell'arte. Recupero che nasce
dal bisogno di superare la soglia della pura presentazione dei
materiali, in favore di una rappresentazione capace di una maggiore,
più articolata culturalmente, ed autonoma rispetto alla
parola forte del politico che condiziona la mentalità
dell'arte negli anni Sessanta, fino alla rinuncia del piacere
della complessità dell'opera. L'arte dunque avvia un salutare
processo di deideologizzazione, supera l'idea euforica dell'esperienza
creativa come eterno movimento sperimentale e coazione al nuovo,
mediante l'assunzione di maniere più meditate.
Il polo drammatico trova un suo ridimensionamento nell'introduzione
di un accento ironico e consapevole che porta l'opera fuori dal
rapporto di scontro ambizioso e ingenuo col mondo. L'ironia,
come passione che si libera nel distacco, accentua il carattere
di lateralità del linguaggio e introduce la possibilità
di un ulteriore piacere, non disgiunto dalla funzione conoscitiva
dell'arte.
La catastrofe energetica, politica e culturale nella seconda
metà degli anni Sessanta ha avuto il benefico effetto
di decongestionare il tessuto dell'arte, logorato da uno sperimentalismo
collegato all'ottimismo produttivistico del sistema economico
negli anni Settanta.
Lo Sperimentalismo aveva assunto il carattere dell'impersonalità
e dell'oggettività puntando non solo sulla comunicazione
bensì anche sull'informazione della struttura linguistica
dell'opera. Indubbiamente una tensione analitica pervade la ricerca
artistica degli anni Sessanta e Settanta, una sorta di atteggiamento
antagonista e mimetico del carattere delle scienze. Al lavoro
astratto e smaterializzante della ricerca da laboratorio coincide
quello destrutturante e smaterializzato dell'arte.
La Transavanguardia ha risposto in termini contestuali alla catastrofe
generalizzata della storia e della cultura, aprendosi verso una
posizione di superamento del puro sperimentalismo di tecniche
e nuovi materiali approdando al recupero dell'inattualità
della pittura, intesa come capacità di restituire al processo
creativo il carattere di un nuovo erotismo, lo spessore di un'immagine
che non si priva del piacere della conoscenza e della memoria
culturale.
All'omologazione linguistica degli anni Sessanta e Settanta,
l'arte degli anni Ottanta risponde con il recupero del procedimento
della citazione, capace di adoperare la storia dell'arte come
ready-made e gli stili del passato come objet trouvé.
Una sintesi dunque tra mentalità picassiana e duchampiana,
con una implicazione concettuale che accetta la definizione di
Leonardo "la pittura è cosa mentale".
Clemente opera sullo spostamento progressivo dello stile, sull'uso
indifferenziato di molte tecniche. Il lavoro è accompagnato
e sostenuto da un'idea dell'arte per niente drammatica che riesce
a trovare nel nomadismo della leggerezza la possibilità
di un'immagine in cui si incrociano ripetizione e differenza.
La ripetizione nasce dall'uso intenzionale di stereotipi, di
riferimenti e stilizzazioni che permettono di portare nell'arte
anche l'idea della convenzionalità. Ma tale convenzionalità
è soltanto apparente, in quanto la riproduzione dell'immagine
non avviene mai in maniera meccanica e pedissequa; anzi tende
a realizzare sempre delle variazioni sottili e imprevedibili
che creano nell'immagine riprodotta uno spostamento, mediante
un'idea orientale di spazio, cioè circolare. Il "figurabile"
è attenuato da una concettuale presenza dell'ornamentazione.
De Maria vuole sconfinare dalla cornice del quadro ed uscire
nello spazio ambientale, dove realizza un campo visivo all'incrocio
di molti rimandi. La pittura è strumento di rappresentazione
per uno spostamento progressivo verso la smaterializzazione.
Stato mentale e stato psicologico si fondono in una immagine
che opera sulla frammentazione dei dati visivi. Il risultato
è una sorta di architettura interiore che accoglie dentro
di sé tutte le vibrazioni insite nel progetto dell'opera.
Ogni frammento vive un sistema di relazioni mobili, in modo che
non esistano punti privilegiati e centrali. Alla nozione di spazio
De Maria sostituisce quella di campo, una rete dinamica e potenziale
di rapporti che trovano la loro costante visiva nell'astrazione
e nell'idea di arte totale.
Paladino realizza una pittura di superfìcie. Egli pratica
un'idea di superfìcie come ultima profondità possibile.
Così hanno emergenza visiva tutti i dati della memoria
culturale e della sensibilità personale, tenuti insieme
nel perimetro di una pittura che va incontro alla scultura e
ad un sistema formale che rinvia all'ordine spirituale di Malevic.
L'opera diventa il luogo della traduzione in immagini di motivi
sottili e impalpabili. Segni della tradizione astratta, e quelli
più evidenti di una figurazione che accetta la coesistenza
geometrica.
In definitiva l'arte italiana degli ultimi decenni ha accettato
progressivamente un'idea dell'arte come realtà autonoma
rispetto all'esistenza del suo creatore, oscillando tra la neutralità
del procedimento analitico e la parzialità del procedimento
sintetico. In ogni caso gli artisti assumono stoicamente la coscienza
della parzialità del proprio ruolo, sottraendosi alla
frontalità di un ruolo positivo che ormai sembra appartenere
alla politica e non al processo creativo. All'arte spetta piuttosto
la lateralità di una posizione riflessiva e critica che
utilizza il linguaggio e le sue metafore come riserva indiana
nei riguardi di un mondo inaccettabile. Da tale consapevolezza
nasce la coscienza di un ruolo che, seppur esercitato, non può
risolvere i problemi al di fuori dell'arte e può solo
sviluppare la propria ricerca dentro i territori del linguaggio.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il rigore diventa
un'istanza morale dell'opera, l'approfondimento linguistico della
pittura e della scultura un momento che connota il lavoro creativo
fuori da ogni retorica di immediatezza espressiva. La giovane
generazione continua anch'essa a lavorare come la Transavaguardia,
partendo da un deposito di energia culturale che costituisce
il deterrente indispensabile per fondare il segno della nuova
opera, come si evince nel lavoro di Bianchi e Gallo.
Bianchi pratica una pittura in cui l'elaborazione è fonte
e matrice di germinazione del segno. I colori chiari adoperati
servono anche a tenere l'opera in bilico tra pittura e disegno,
con una manualità che ritorna continuamente sui propri
passi e continua a rielaborare un linguaggio fatto di vari spessori
e rimandi, tutti legati comunque alla spiritualità dell'artista,
di chi vive l'arte come dimensione progettuale che parte dalla
materia e si allarga in un movimento di smaterializzante elevazione,
dove avviene l'epifania di un segno, levitazione della materia
nella oggettività della forma.
Gallo ha sviluppato una pittura e una scultura che misurano metafisicamente
la condizione di tensione equilibrata tra le forme. Egli affronta
l'universo delle forme iconiche che rimandano sempre ad oggetti
riconoscibili per restituire loro una diversa identità
e nobiltà di posizione. Una posizione nutrita di una sottile
energia mentale che stabilisce relazioni particolari delle forme
tra loro, tra stasi apparenti e spostamenti concettuali. Idea
e forma vivono incarnate tra loro e aiutano gli oggetti a perdere
quel peso che li connota. La memoria non è un peso ma
propellente che aiuta le forme a disporsi come nuove sulla scena
silenziosa ritagliata dalla cornice.
Negli anni Novanta, "l'opera italiana" è il
risultato di un intreccio stilistico che ingloba dentro di sé
l'ornamentazione astratta e l'essenzialità figurativa,
la geometria di un linguaggio costruito secondo l'ordine di un
progetto dolce, la fondazione di un ordine linguistico che cerca
la definizione formale e non soltanto l'espressione. Tali caratteri
corrispondono ad un'urgenza sistematica, ad una tensione creativa
che cerca ormai di stare tra le polarità di un linguaggio
costruttivo, capace cioè di dar conto attraverso il risultato
e non altrimenti dell'identità dell'artista, come si evince
nel lavoro di Pirri ed ora Martegani Pancrazzi e Manfredini.
Sicuramente questi giovani artisti percorrono un'esperienza creativa
che vuole ridare all'arte un linguaggio unitario seppur giocato
sotto il segno di una frammentazione formale che conserva il
carattere disseminato di un'operazione alla seconda, che non
crede alla creazione allo stato puro, ad una visione romantica
che possa affermare la superba sicurezza dell'originalità.
Essi semmai si muovono sotto la spinta di una tensione formale
tesa alla costruzione di nuova oggettistica o pittura, comunque
forme rappresentative di una condizione morale che cerca di opporre
al disordine del mondo il motivato ordine formale della propria
opera.
Ora nella seconda metà degli anni Novanta ed alla fine
del XX° secolo l'arte si trova a confrontarsi con un difficile
contesto dominato dalla telematica che trova identità
produttiva nella realtà virtuale e nell'anoressia dell'immagine.
La smaterializzazione e la demateriahzzazione dell'oggetto esaltano
la capacità penetrativa della telematica negli spazi domestici
mettendo in discussione anche la statica architettura del museo
e della galleria.
Contro tale anoressia falsamente vitale che trova il proprio
terminale nello spazio e nell'habitat domestico, l'arte sviluppa
una felice resistenza, la produzione di ultra-corpi le cui forme
si sviluppano per oggetti circoscritti fino alla pervadenza dell'installazione.
In tal modo viene smantellato il concetto di habitat come alveo
materno, archetipo architettonico ed indistruttibile nella civiltà
mediterranea.
La precarietà installativa fonda la mobilità di
una casa post-mediterranea intesa come non-luogo, disancorata
dal concetto di stanzialità geografica.
L'artista si misura dunque, seppur in termini di lateralità
riflessiva, col proprio contesto, sviluppando una produzione
di forme che insistono più sul livello concettuale di
differenza che su quello di mimetica spettacolarizzazione.
Riducendo ogni metafisica vetrinizzazione, l'arte italiana del
XX° secolo sembra voler stimolare nello spettatore la dignità
silenziosa di una riflessione lampante e progressiva, la produzione
di una diversa visibilità che si sviluppa a partire dalla
"cosa mentale" dell'opera.
Una visibilità non statica e statistica ma germinatrice
di nuove realtà visive. Come Boccioni riconosce a Balla:
"egli applica ferreamente la teoria di fare di una macchina
un paesaggio". Un paesaggio sì, ma naturalmente pensante. |
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