NOTE PRESUNTUOSE SUGLI ANNI
SESSANTA IN ITALIA Gli anni Sessanta, per chi come me ha frequentato l'università nei Settanta, erano il passato prossimo, il precedente più diretto, col quale si potevano confrontare e motivare le esperienze artistiche che vedevamo svolgersi sotto i nostri occhi. Il decennio appena trascorso ci serviva per capire gli eventi del presente, e con essi lo spirito del tempo che spesso, soprattutto a me che venivo dalla storia del teatro, risultavano ardui da comprendere. Le avanguardie storiche inaugurano, ma non portano ancora alle estreme conseguenze, l'epoca dell'antigrazioso: il rifiuto della grazia, dell'aggraziato, in altri termini il sospetto gettato su ogni ipotesi di estetica del bello viene assunto con radicalità presso le neo-avanguardie. Dopo l'epica dell'Informale, toccante ma un po' uniforme, a parte le note eccezioni, e comunque comprensibile perchè (perchè no?) assegnabile ancora all'umano-troppo-umano, nell'arte ha cominciato a vivere un'anima straniata, che si esprimeva con un linguaggio "difficile": certo, perchè il soggetto, questa asfissiante ipotesi posta a dominio di ogni discorso, cominciava a perdere l'aureola e cioè a porsi come problema, lasciando aperto il problema in ogni discorso. E questa apertura generava la volontà di sperimentare, giacchè questo è il decennio in cui si riprende decisamente l'istanza del nuovo, dello sperimentalismo, ereditata dalle avanguardie storiche e portata ad un primo compimento nel decennio successivo. Sono dunque percorsi erratici e problematici quelli che gli artisti intraprendono, più decisamente di quanto succeda ai loro colleghi operatori teatrali, per esempio, da sempre confortati dall'ipotesi della comunità dei fruitori. E naturalmente da quella del senso, questa merce di scambio che nell'arte, per prima, si discute. Negli anni Sessanta prende piede l'estetica dell'immagine, secondo una definizione un po' scolastica che, tra l'altro, la mostra che qui vogliamo commentare non intende avallare del tutto, e questa estetica a sua volta ha poco di confortante. La sua stessa costruzione è data come processo, progressione, problema, e niente vi si trova di già accreditato. Schifano ci mostra un suo processo materiale di formazione, con i grandi monocromi solcati di gocciolalure che di lì a poco si fanno schermi per l'apparizione di frammenti iconici che sembrano originarsi da quel processo e sono invece altri, appartengono a un altro universo. Le immagini dei mass-media? Ma sono proprio queste il nostro perturbante, e il toro effetto ancora gioca sullo shock della "decontestualizzazione", come si vede negli "artypo" di Rotella. Gli artisti della Pop Art romana giocano sulla ambiguità percettiva, con le sculture appiattite dì Ceroli e le forme sintetizzate fino all'ermetismo di Pascali, con le loro installazioni di sapore teatrale che giungono a veri detournements ambientali. Le immagini vengono assorbite nell'emblema, aittanagliate dalla stereotipia che dunque le enuncia chiudendole in una effettiva sospensione del senso, come in Tacchi o nei segnali grafici del primo Kounellis. L'immagine si evince spesso a fatica, intrisa dell'ambiguità del frammento destinato a non ricongiungersi ad una totalità. II frammento vive una sua epopea, nelle ricerche figurative di area milanese, anch'esse assegnabili alla Pop Art (ma anche nel campo della "nuova figurazione", come succede nel caso di Bepi Romagnoni). La critica vi ha sempre rintracciato una vicinanza al linguaggio dei fumetti, con i loro contorni precisi, avvertendo però che nulla di precisabile avviene in queste composizioni. Adami pratica una sorta di erotizzazione dei ritagli figurativi, che dice una volontà di ricomposizione del corpo spasmico vissuta come conflittuale. Così come sul limite del conflitto è giocato il tentativo di ricomposizione di una totalità culturale, in Del Pezzo o in Tadini, articolata per accumulazione c accostamento di segni allusivi (le culture popolari, la Metafisica, l'Illuminismo) che per contro il soggetto sembra poter assumere solo come tragica pluralità. Se c'è qualcosa che accomuna, che pone accordo nel disaccordo, questa non appartiene al soggetto e all'adulto: è il mondo degli oggetti che fa da supporto ilare al grottesco di Baj, oppure è il mondo dell'infanzia ironicamente rivisitato da Mondino, oppure ancora il mondo artificiale delle nature parallele di Gilardi, stupefacenti e raggelanti, o l'elegante corredo di "macchine inutili" costruito da Piacentino. E questi scenari, coerenti, solidali, non troveranno migliori testimoni dei personaggi fissati sugli specchi di Pistoletto. E noi con loro, fissati nella contemplazione mobile di ciò che ci connatura e che qui con un semplice dispositivo si emblematizza: la scissione. Solo che è proprio a partire dalla scissione che si articolano i discorsi dell'arte: per farne funzionare la dirompenza, non per rimuoverla, come fanno i discorsi d'ordine. La scrittura si mostra attraversata dalla pulsione e motivata da quell'alterità senza la quale, dice Derrida, il linguaggio non sarebbe quello che è. La scissione origina i linguaggi e gli artisti l'hanno sperimentato: nell'accostamento fra parola e immagine, o nello scambio di funzioni fra i due differenti protocolli; creando una speciale ideogrammatica, come fa Baruchello, o analizzando l'ambiguità del linguaggio verbale, ritenuto più affidabile per la comunicazione, come fa Carrega. Non ci sono dunque punti fermi, riferimenti? Non c'è una centralità nel fare arte, non c'è per quanto aperta, polisemica, ambigua, la realtà accertabile dell'opera? Si direbbe che ci sono, invece, relazioni. Cosa c'è stato, in Italia, prima delle poetiche tipiche degli anni Sessanta, che vive ancora come insegnamento e, poi, come eredità? C'è stata, tra le altre, la ricerca di Lucio Fontana: l'opera come pura relazione con l'alterità, con lo spazio. C'è lo spazio reale trasfigurato negli "ambienti spaziali", di pura luce, e c'è lo spazio reale e virtuale insieme, dei "concetti spaziali". La tela tagliata,la fenditura che apre ad una dimensione psicologica, squisitamente mentale, pensabile come idea del cosmo, o del nulla, o dell'altrove. Di quest'opera dicibile in quanto creata in nome dell'alterità, la definizione stessa diviene un problema. Fra ambiente e concetto spaziale l'artista articola la propria ricerca su una biforcazione che ritroviamo in Manzoni: se il Manzoni vitalistico e provocatorio richiama la lezione Dada, i suoi "achromes" sono, più che una mera mutazione genetica dell'oggetto-quadro, gli episodi di un inesausto confronto con l'assoluto (come in Fontana, o in Burri). La spazialità contenuta nelle composizioni di Castellani è la resa di quella virtualità sul piano delle ricerche sulla percezione, similmente ai "filtri" di Lo Savio, che per altro tocca lo spazio reale con le sue sculture-dispositivi atti all'innesto di relazioni spaziali altre: possibili, progettabili, ma, ancora, assolute. Mentre articolati sull'interesse per la psicologia della percezione sono le opere di Sergio Lombardo ed i dispositivi ottico-cinetici di Colombo, che lo spettatore può strutturare o modificare e che, nel secondo caso, preludono ad operazioni coinvolgenti l'ambiente. E anche nelle ricerche scultoree di Spagnulo, Uncini, nelle installazioni di Pardì, la dialettica di pieni e vuoti relativizza la struttura, il corpo dell'opera, legandone l'assetto ad una riflessione complessiva sullo spazio come luogo codificato, e trasgredito. Processo, problema, relazione: con Fontana la ricerca artistica comincia ad assumere connotati concettuali, quegli stessi che abbiamo visto esplicarsi al meglio negli anni Settanta. Alcuni protagonisti delle tendenze genericamente definibili come "metalinguistiche" sono già operanti: dal 1960 Paolini, che esibisce e tematizza gli strumenti operativi codificati delle arti visive. Poi fra altri, Bruno Di Bello rivisita le avanguardie storiche con gli strumenti della riproducibilità tecnica, mentre Boetti o Parmiggiani adottano materiali extraartistici per intraprendere i loro sottili, ironici giochi sulla superficie del linguaggio. Sul finire del decennio, è la verifica dello scollamento fra segni e referenti fondata su una retorica della contraddizione e della tautologia, è lo scardinamento del linguaggio verbale che giunge a innovare i linguaggi artistici, insomma è la figura di Vincenzo Agnetti che, in questa direzione, inaugura l'epoca nuova. Epoca di sperimentazioni, di molteplicità di direzione; noi che abbiamo operato negli anni Ottanta, epoca dì eccessi, si, fortunatamente, ma anche di chiusure, ritroviamo a volte nell'arte nuovissima quella apertura, non più data come drammatica forse, ma fruttuosa. E siamo di nuovo contenti. Giorgio Verzotti
|